Pink Flamingos, un’elegia per Divine

Pink Flamingos, un’elegia per Divine

Interno familiare, da qualche parte nella provincia americana

Quando credete di aver visto tutto, solo allora arrivano i Midnight Movies! Film che si possono vedere solo negli spettacoli a tarda notte e solo in alcune sale cinematografiche. Rarità o filmacci? In entrambi i casi oggi si chiamerebbero cult.

Bisogna pensare ai Midnight Movies non solo come il materiale che risiedeva dietro la tendina rosa o nera nella vostra videoteca di fiducia (ok, se questo ricordo non fa parte della vostra vita, siete troppo giovani. È un problema. Per voi è tutto facile con YouPorn! Dove è finito il gusto della sfida? Dell’inafferrabile?). Quella specie di spelonca inarrivabile, e per questo sacra, dei film per adulti. Separata del resto, dove solo alcuni eletti (per età, ma anche per coraggio) erano ammessi. I Midnight Movies erano questo, ma anche altro. Non solo la sacralità del proibito, benché dozzinale, ma il lato oscuro di una società che stava iniziando a capire di avere delle sfaccettature insolite e non previste. Non è un caso che come “genere” sia nato negli anni settanta; non è un caso che si tratti di un fenomeno prettamente americano, gestito dallo stesso sentimento che ha creato i cult. E spesso Midnight Movies e cult si sovrappongono, come categoria cinematografica.

Il più famoso Midnight Movie rimane l’immortale The Rocky Horror Picture Show, ma nel numero di questo non-genere possiamo annoverare tutta la prima filmografia di Alejandro Jodorowsky, risalendo all’inizio degli anni ’70. Fino a quello che possiamo considerare se non il capostipite, quanto meno l’archetipo di tutto ciò che il Midnight Movie rappresenta: Pink Flamingos. Violento, volgare, senza (apparente) senso, questo film incredibile di John Waters racchiude tutto ciò che non avremmo mai voluto vedere. E che guardiamo, godendo della nostra indole da guardoni incalliti che spiano dal buco della serratura quel mondo che rifuggiamo e dal quale (per questo) siamo attratti. Difficile classificare Pink Flamingos entro un singolo genere: è una specie di essere multiforme che cambia continuamente (uno shoggoth, se aveste letto Lovecraft. Leggetelo, capre!), esattamente come la sua interprete, la strepitosa Divine.

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Prendete Salò di Pasolini. Ed epuratelo di tutto il sottotesto politico, di tutta la sovrastruttura filosofica e del contesto storico sociale. Immergete nei lustrini ciò che rimane. E avrete una pallida idea di Pink Flamingos. Sesso con ogni creatura vivente (sì, anche animali), incesto, coprofagia. Un film debordante e a tratti orribile, che nasce dalla semplice idea di stupire e sbalordire, anche orripilare, chi guarda. Non c’è (quasi) velleità di critica sociale o politica, siamo in America, mica in Europa! L’immagine regna padrona. Se Salò era un film leggibile su più livelli di conoscenza (e per questo un capolavoro), Pink Flamingos decide coscientemente di avere un unico livello, quello dell’immagine pura, della pancia, dell’intestino. E per questo è un capolavoro. Tutto può essere mostrato, tutto è cinema, tutto è arte. Una sorta di Pop Art cinematografica, all’ennesima potenza. Sostenuta dal nostro intrinseco e malsano voyerismo, che ci rende tutti “Peeping Tom”, davanti alla macchina da presa. Waters intuisce questa perversione e la sfrutta al massimo. Ci rende tutti ugualmente pornografi, fruitori di massa di un prodotto intenzionalmente scadente (poi neanche tanto). E ci ricorda che ci piace, ipocriti bempensanti del cazzo che non siamo altro. La realizzazione è volutamente dozzinale, incapace di incarcerare la mole traballante del film in un unica idea narrativa. La regia alterna fasi documentaristiche, con tanto di voce fuori campo, a fasi più narrative. La recitazione è perennemente sopra le righe, da parte di tutti i personaggi.

Il regista, più o meno recitando la parte dell’idiot savant, prova anche ad inserire una sorta di critica alla società massificata americana, al puritanesimo che nasconde turpitudini varie e ai mass media a caccia di notizie facile e sconvolgenti. Alla fine il personaggio più “puro” è proprio la persona più “filthy del mondo, quella Divine capace di ogni cosa. Ma alla luce del sole, senza bisogno di nascondersi sotto una coltre di borghese ordine. Non è chiaro quanto John Waters volesse coscientemente criticare la società in cui viveva con le tematiche trattate o quanto volesse farlo con il fatto stesso di aver realizzato un tale film e aver avuto successo. O forse non voleva criticare proprio niente e nessuno, semplicemente ha descritto il distorto mondo intorno a sé. La colpa più grande dei borghesi puniti alla fine del film, in fin dei conti, è “first-degree stupidity and assholism”, come recita la condanna a morte proclamata dalla nostra divina Divine (in rosso e lustrini, per l’occasione).

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Proprio la protagonista del film è il cuore pulsante dello stesso. Non sarebbe mai potuto esistere Pink Flamingos senza Divine. Dirompente, eccessiva, sbagliata, capace di fagocitare qualunque cosa. Una sorta di maelstrom di carne e trucco, punto nevralgico della poetica del film. Essa stessa è il film. Gli altri attori altro non sono che sue propaggini o suoi contrari. In lei si riassumono tutte le contraddizioni della società. Osannata come una diva, sebbene proclamata la persona più disgustosa del mondo (e lei ne va fiera, ovviamente): esattamente come il film divenne cult, nonostante il disgusto generale. Figlia di una società del consumo impazzita, rappresentata da una mamma matta che altro non chiede che uova, simbolo di un benessere da boom economico. Divine gigioneggia davanti alla macchina da presa, occupando le inquadrature per intero, decidendo quale spazio lasciare al resto, allo sfondo. Nell’artigianalità (finta) del film, sembra che la protagonista scelga essa stessa le battute, le movenza. Sembra che tutto scaturisca da lei, come in assenza di una sceneggiatura vera.

Lei è sempre perfetta, divina, in tutto. Un enorme personaggio, che recita la parte di se stessa. Non esiste una chiara demarcazione fra il personaggio Divine e la persona Divine (ma “persona” stessa significa apparenza: Divine altro non è che la maschera dietro la maschera dietro la maschera), come sottolinea la voce fuori campo. A lei tutto è concesso. Perché lei è l’incarnazione stessa di quella tendenza voyerstica nascosta in noi, lei è tutto ciò che c’è di segreto e recondito sotto la nostra superficie perbenista. Qualche anno prima che il Dr. Frank N. Furter ci sconvolgesse col suo piacere assoluto.

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