I migliori film del 2023 (secondo SALT)

I migliori film del 2023 (secondo SALT)

Listo dell'anno!

Una premessa che sentiamo doverosa. Siamo contenti, davvero, che fra i migliori film dell’anno tanti siano stati girati da registe, poiché sappiamo quanto raggiungere questo risultato sia complesso nell’industria cinematografica (e non solo). E forse proprio i due migliori film dell’anno, Anatomia di una caduta e La Chimera, sono il perfetto esempio di come le cose stiano cambiando, in senso positivo.

Un’altra debita (o forse no) annotazione, prima di proseguire. La lista dei nostri migliori film di quest’anno ne contiene due (Barbie e Bottoms) in cui un gruppo di donne in un furgone commette atti terroristici a discapito degli uomini. E un terzo film in cui una donna compie un atto rivoluzionario (C’è ancora domani). Di questo abbiamo bisogno: forse non proprio proprio degli atti terroristici, ma di una rivoluzione culturale.

 

Cominciamo! (In ordine sparso, non sono in ordine di preferenza)

PALAZZINA LAF – Michele Riondino

Michele Riondino è alla sua prima prova da regista in un film tratto da Fumo sulla città, libro di Alessandro Leogrande. 

La storia centrale non è quella della grande, infinita e mediaticamente pluriraccontata crisi dell’ILVA di Taranto, come potrebbe sembrare a uno sguardo distratto. La storia è quella di un particolare reparto della fabbrica. Ma, soprattutto, la storia è quella di un modo di fare per il quale il presidente del consiglio di amministrazione dell’ILVA, Emilio Riva ed altre figure apicali sono stati condannati in appello nel 2006.

La palazzina LAF, il luogo del confino degli operai scomodi, è quindi la protagonista.

Non il dipendente – spia. La sua miseria, forse sì. La sua ignoranza, pure. La palazzina LAF è protagonista perché simbolo e non metafora. La palazzina LAF è il manicomio del mondo del lavoro senza scrupoli, dove i pazienti sono le vittime (in)consapevoli del sistema.

Certo, non siamo davanti Sorry We Missed You – per citare un altro grande film che narra di un fenomeno contemporaneo del mondo del lavoro – e Michele Riondino non è Ken Loach. Ma Palazzina LAF ha un modo delicato e violento allo stesso tempo di ricordarci – senza imporceli – tutti i temi che fanno da sfondo a questa storia particolare e che ancora oggi ci trasciniamo.

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FALLEN LEAVES – Aki Kaurismaki 

Non si scappa: Kaurismaki lo ami o lo odi. E Fallen Leaves è un concetrato di Kaurismaki all’ennesima potenza: favola di periferia, sull’incontro e innamoramento di due “ultimi”, una cassiera e un operaio con problemi di dipendenza da alcol. L’atmosfera è quella tipica del regista finlandese: rarefatta, grottesca, minimale. I dialoghi quasi non esistono e quando ci sono non dicono niente, se non trasmettere un profondo disagio. C’è un’ironia potente di fondo, che attraversa tutta la pellicola e che deflagra a volte in esplosioni di comicità. E c’è la regia fatta di inquadrature fisse, studiate per lasciare i protagonisti spesso in uno spazio laterale e non centrale, come il mondo li ha lasciati. Spiccano in queste inquadrature i colori, soprattutto degli interni, quasi ipersaturi ed eccessivi: anche ai margini, queste vite ancora esistono.

La vicenda si svolge nelle periferie industriali di Helsinki, che smitizzano completamente il nordeuropa come luogo felice e di welfare. La musica, infine, ha un ruolo importante, come spesso accade nei film del regista (tanto che ha fatto una serie di film su uno sgangherato gruppo musicale) e sottoline alcuni dei momenti più importanti del film.

O lo ami o lo odi. Ma in ogni caso non si può non apprezzare la totale mancanza di adesione ai canoni cinematografici attuali, sia per temi trattati che per tecnica; la distanza fra le sceneggiature a cui siamo abituati e quelle di Kaurismaki qui si fa davvero profonda. Così come la fortissima atemporalità della storia raccontata. Sebbene sappiamo per certo che è girata ai giorni nostri (in particolare durante la guerra in Ucraina, che per i Finlandesi ha una rilevanza molto particolare, visto il rapporto storico on la Russia), potrebbe essere un film girato (e ambientato) negli anni cinquanta e funzionerebbe ugualmente.

Noi lo amiamo.

 

C’È ANCORA DOMANI – Paola Cortellesi

IL film dell’anno per il cinema italiano, a mani basse.

Nessuno di noi avrebbe mai immaginato di ridere e piangere quasi al contempo per tutta la durata di questa pellicola, realizzata in bianco e nero e in 4:3 per i primi minuti, per omaggiare il neorealismo del dopoguerra. Straordinario debutto alla regia per Paola Cortellesi, che narra di una Roma post bellica profondamente segnata dalla povertà e dalla imminente rivoluzione politica. Le vicende sono raccontate dal punto di vista di Delia, moglie di Ivano e madre di tre figli (due dei quali vorreste ammazzarli dopo 5 minuti), personificazione della “donna equilibrista”, che fa mille lavoretti per guadagnare quel poco di denari che dovrà necessariamente consegnare all’uomo di casa, unico detentore del futuro delle famiglie italiane dell’epoca. C’è ancora domani è certamente un film di denuncia della condizione femminile, delle violenze domestiche che tante donne erano costrette a subire perché di fatto socialmente accettate, ma è anche un film che celebra l’amicizia femminile (pensate a Marisa, interpretata da una meravigliosa Emanuela Fanelli), che esalta la complicità silenziosa tra madre e figlia e che ha ancora tanto, tanto da insegnarci.

Ci auguriamo di cuore che tutti l’abbiate visto, altrimenti vi suggeriamo di farvi questo regalo, si trova ancora in diversi cinema italiani! Al momento in cui scriviamo, il film ha incassato 32 milioni di euro, dati da 4.6 milioni di presenze.

Lato nostro, aggiungiamo un desiderio: che venga proiettato in tutti i licei, almeno una volta all’anno.

 

 

BARBIE – Greta Gerwig

Cominciamo dal principio. Il film è bello. Full stop.

Sceneggiatura vincente, colonna sonora e costumi semplicemente perfetti, dialoghi che fanno ridere forte. Menzione a parte meritano le interpretazioni degli attori principali. Margot Robbie e Ryan Gosling ci regalano probabilmente l’interpretazione della vita. Un film quindi ottimo, in quanto tale, divertente e acuto, con un messaggio positivo, con delle coreografie stupende, che solo sul finale forse si ammorbidisce un po’ nella sua critica. E qui emerge il problema col contesto, la grande bambola nella stanza. È possibile fare critica anticapitalista nell’ambito di un prodotto chiaramente capitalista e volto al commercio di nuovi brand e prodotti? È possibile fare una critica femminista al patriarcato da parte di una bambola che è cresciuta nel solco del patriarcato? 

Cosa ne direbbe Mark Fisher? Ci ha pensato il nostro Ale Pig, ad abbozzare un’interpretazione.

 

 

ANATOMIA DI UNA CADUTA – Justine Triet

Cos’è la verità? Ma soprattutto, a chi interessa? Il film della Triet sembra porsi questa domanda di base nell’affrontare il caso giudiziaro del titolo, nel dissezionarlo (come il titolo suggerisce). Ma non si ferma qua. Il film è stratificato e presenta diversi angoli di lettura. C’è sicuramente la discussione sulla verità, non risolta. C’è anche un approccio sensoriale alle vicende, a partire dal personaggio del figlio che è ipovedente. Se la prima parte del film è tutta giocata sui rumori (a tratti fastidiosi), nella seconda dobbiamo, vogliamo, vedere: e ci viene mostrato tutto, nelle ricostruzioni (in tribunale o nella fantasia dei protagonisti), tranne ciò che è fondamentale – che viene debitamente occultato dalla regista, togliendoci ogni possibilità di comprensione univoca. La terza parte sembra ricordarci che la verità e anche i sensi sono approcci non adeguati, in questo caso; serve una decisione, una presa di posizione. Il personaggio centrale è la moglie del morto, interpretata magistralmente da Sandra Hüller, che apre inoltre un’altra lettura della pellicola. La protagonista è infatti perennemente in bilico fra una mancanza di affettività glaciale ed egoistica e la giusta necessità di affermazione femminile, che viene ampiamente discussa con l’avvocato dell’accusa e col marito, nelle ricostruzioni. Dove finisce l’autoaffermazione e dove inizia l’egoismo? Il film non offre chiare risposta, ma lascia importanti domande. L’altro protagonista è il figlio della coppia, il piccolo Daniel interpretato da Milo Machado Graner. È lui che alla fine prende una posizione. Tuttavia, la sua straordinaria (e non causale) somiglianza con Danny, il protagonista di Shining (il taglio di capelli, il maglione rosso, il nome stesso ed infine l’ultima scena, che ribalta l’abbraccio di Jack Torrance), lasciano inquietanti interrogativi anche sul suo personaggio e sulle decisioni che alla fine prende.

Forse il miglior film dell’anno, per capacità registica, interpretazioni e per l’importante livello di stratificazione dei significati.

 

 

IL SOL DELL’AVVENIRE – Nanni Moretti

Se non vi siete commossi nella scena finale, corale, del film di Nanni Moretti, siete degli insensibili che non si meritano le canzoni di Battiato. Siete avvertiti.

Nanni Moretti torna (finalmente) a fare se stesso, a parlare di sé, che in fondo è quello che sa fare meglio. Dopo il tremendo Tre piani, Moretti torna a farci sognare con una commedia umana e politica al contempo, nostalgica e acuta. Verrà criticato di autoreferenzialità, ma Moretti dà il meglio di sé quando è autoreferenziale, quando parla delle sue nevrosi, di quanto era bello il PCI e di quanto ci fanno stare bene le canzoni. È tutto qui: ci sono le canzoni, nuove e vecchia (soprattutto Battiato, ovviamente), ci sono le strizzate d’occhio ai suoi vecchi film, c’è l’ironia e l’autoironia. C’è una critica (un po’ boomer, ma formalmente impeccabile) al cinema moderno. E ci sonon un paio di momenti realmente spassosi.

Bentornato Nanni. Ci eri mancato.




 

LA CHIMERA – Alice Rohrwacher

Alice Rohrwacher prosegue con la sua personalissima poetica che riesce a fondere il realismo degli ultimi di Pasolini con la poesia surreale di Fellini, trovando un’espressione artistica tutta sua e personalissima. Nel panorama artistico italiano è forse un unicum, probabilmente più apprezzato all’estero che in patria (tanto che il film è stato distribuito in pochissime sale, con annessa polemica).

Un archeologo inglese capace di “percepire” i resti delle tombe etrusche si unisce a d un gruppo di tombaroli dell’alto lazio-bassa toscana. Ciascuno insegue la propria chimera, che sia un amore che non può ritornare, la ricchezza, la bellezza o semplicemente un mondo nuovo (come Italia). Queste chimere, però, non permettono ai protagonisti di avanzare in alcuna maniera (da qui l’appeso della locandina) e solo rinunciando a queste i personaggi posso trovare un posto nel mondo. Un posto collettivo, sembra dire la parabola di Italia, condiviso. 

La storia è perfusa da un alone di magia e poesia, anche quando è fortemente ancorato al mondo ctonio delle tombe, alla terra, ai casolari che sembrano disabitati ed invece ospitano una vita al limite, liminale. E proprio il protagonista, interpretato da Josh O’Connor, è figura di confine fra il mondo dei vivi ed il mondo dei morti, incapace di trovare il suo posto in entrambi.

Probabilmente il film della stagione che ci rimarrà dentro più a lungo.

 

RITORNO A SEOUL – Davy Chou

Quota MUBI dell’anno. Il film è uscito al cinema (a differenza, per esempio di Passages), ma quasi in contemporanea anche su MUBI, che inoltre lo produce.

Racconta il viaggio di una giovane coreana adottata in Francia ancora neonata alla ricerca della sua terra d’origine e della sua famiglia, che ha dovuto abbandonarla oltre 20 anni prima. Freddie, la protagonista, è forte, indipendente, coraggiosa e al contempo estremamente fragile – l’interpretazione di Ji-Min Park è davvero notevole nel rendere la tridimensionalità del personaggio. Freddie è attratta e respinta dalla Corea, in una sorta di continua danza che si muove attraverso gli anni, alla ricerca perennemente frustrata di una propria appartenenza, che la protagonista non trova in Francia, da cui spesso fugge, ma neppure in Corea. Ciò che trova in Corea non è forse quello che sperava, ma questo l’aiuta a crescere e a conoscere il senso degli affetti e della famiglia. 

Il film presenta molte imperfezioni, a partire da una ripartizione molto strana che rompe molto la tensione ed il flusso narrativo. Tuttavia, è un film estremamente umano, per tutti quelli che sono ancora alla ricerca di una “casa”, intesa come luogo dell’affetto e porto sicuro a cui fare ritorno. Contiene forse la più profonda scena di ballo dall’annata.

 

DECISION TO LEAVE – Park Chan-wook

Arrivato da noi all’inizio del 2023, il nuovo film di Park Chan-wook è un thriller con tinte melò venate di commedia (sì, si sorride, a tratti si ride proprio), spezzettato e rimontato in maniera magistrale. Difficili i paragoni: il più facile è quello con l’Hitchcock di Vertigo, per l’ossessione e la doppiezza della protagonista femminile. Anche qui, la detective story è influenzata o forse guidata dalla forze del sentimento che si instaura fra i due protagonisti, che supera i confini del tempo e dello spazio fino a giungere all’incredibile e poetico finale: laddove due infiniti si incontrano, ma non si mescolano, e tutto viene spazzato via come sabbia dal mare. Un’esperienza cinematografica pura e poetica, intima e profonda. E uno sfoggio ti tecnica registica e di montaggio incredibile, che non diventa mai estetizzante né fastidioso. 

Un miracolo del regista coreano.

 

THE BANSHEES OF INISHERIN – Martin McDonagh

Il regista torna a lavorare con Colin Farrell e Brendan Gleeson, a anni di distanza da In Bruges e questa ballata grottesca e malinconica ambientata in una sperduta isola irlandese sembra ricordare il film ambientato a Bruges piuttosto che l’ultimo (e splendido) Tre Manifesti a Ebbing, Missouri. Di entrambi prende l’ironia e il senso del grottesco, ma sull’isola irlandese, fra pecore e asini, riesce ad amalgamarlo con una dolente elegia degli ultimi. In questo, un lavoro straordinario viene fatto dai due protagonisti, così diversi e complementari, che riescono anche a rendere i momenti più grotteschi credibili e umani. Le location e la natura diventano uno dei comprimari (fra tutti, l’asina del protagonista), che fanno da specchio alle speranze (spesso fallite) e alle pochezze umane dei protagonisti. Il cast è poi ulteriormente arricchito dalle splendide interperatazioni dei personaggi secondari, su tutti Kerry Condon e Barry Keoghan.

Ingiustamente non premiato agli Oscar dello scorso anno.

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IO CAPITANO – Matteo Garrone

Garrone si avventura in un terreno difficile: il viaggio di un migrante dal Senegal fino all’Italia, alla ricerca di un futuro migliore, passando per i campi di prigionia in Libia, il deserto, i soprusi, le torture. Il regista alterna con sapienza aspetti realistici a momenti onirici e poetici, paradossalmente forse i più riusciti del film; non indugia sulle sequenze più truculente, che vengono piuttosto suggerite anziché mostrate. Questo può essere un limite, ma rende anche il film molto fruibile su vari livelli e per vari tipi di pubblico, tanto da renderlo il candidato ideale per Golden Globe e Oscar nella categoria Film in lingua straniera. Menzione particolare al protagonista, il giovanissimo ed esordiente Seydou Sarr, che si carica il film in spalla e riesce a sostenerlo per tutta la sua durata. Un’odissea moderna, bella da vedere e per riflettere sulla condizione umana, di cui il protagonista incarna diverse sfaccettature. A voler cercare dei difetti, manca quasi completamente l’aspetto più politico della questione. Lo capiamo, si tratta di una vicenda prettamente umana. Ma forse, almeno in questo tipo di argomenti, non si può scappare alla politica.

 

Noi perplessi quanto loro per quanto ci sia PIACIUTO questo film!

Menzione Speciale: BOTTOMS – Emma Seligman

Basterebbe dire che c’è una scena con Total Eclipse of the Heart di Bonnie Tyler in cui esplode una macchina. Cioè, cosa volete di più da un film? In ogni lista dei migliori film dovrebbe esserci un film con TEOTH e cose che esplodono, credo che possiamo essere d’accordo su questo.

Come non bastasse, Bottoms è a mani base la miglior commedia dell’anno, quella più intelligente e soprattutto quella che fa francamente ridere (difficile, pensateci). Punk, anarchica, a tratti nonsense, Bottoms rappresenta il perfetto gender swap delle commedie liceali demenziali americane degli anni ‘80. Ma lo fa facendo fare alle ragazze cose che di solito sono considera “da maschi”, tipo prendersi a pizze in faccia e a calci in pancia. Perché in Bottoms ci si picchia duro e dritto, senza mezzi termini.

Emma Seligman (regista) torna a fare coppia con Rachel Sennott, che scrive anche la sceneggiatura, dopo il successo di Shiva Baby. Due ragazze adolescenti, lesbiche, sfigate, innamorate delle cheerledears perfette, decidono di fondare una sorta di fight club per girl empowerment con l’unico intento di scoparsi le loro amate. Le cose prenderanno pieghe impreviste, coinvolgendo i bellocci bamboccioni delle locale squadra di football. I maschi sono stereotipi (divententissimi) e poco più, mentre il lavoro di caratterizzazione delle ragazze è molto preciso ed anche le comprimarie con poco screen time risultano dei personaggi tridimensionali, frutto anche degli ottimi dialoghi. Da vedere assolutamente, magari affiancato a Barbie.

 




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