E’ giunto anche quest’anno quel momento dell’inizio della primavera in cui Milano impazzisce e il traffico salta e i Navigli si affollano e le rimesse arrugginite sotto la Stazione Centrale prendono vita: lo scenario apocalittico che vi si para davanti non è il set dell’ultimo film di Eli Roth, ma ovviamente l’attesissimo Salone del Mobile.

Il momento in cui gli eventi fioccano, tutti sembrano all’improvviso occupatissimi viveur, e quella pseudomodella che state tentando di avvicinare da un po’ non sembra più così irragiungibile, dopo un paio di Negroni appoggiati con nonchalnce a qualche fedele riproduzione in ceramica di Duchamp.

Abbiamo pensato che,  come qualche altra volta in passato, proprio ora potreste aver bisogno di noi: ed è per questo che vi regaliamo il presente Vademecum. Ideale per quando cercate di impressionare il capo all’evento B2B in cui la cravatta pare stringere un po’ troppo entusiasticamente la giugulare, riscoprendovi addirittura esperti, capaci di arguti collegamenti cinefili. Per esempio, mentre vi recate al Lambrate Design District per conoscere i giovani e fighissimi designer di MO.CA – ci sono anche i nostri amici di CubePit! – potreste intrattenere i presenti con un’acuta elucubrazione sul gusto classico di Kubrick, chiaramente apprezzabile nella sequenza della camera da letto “con il Monolito nero quale unico strappo futurista in un panorama altrimenti versailliano”.

E se non avete capito che ci siamo appena riferiti alla copertina di questo articolo, beh, tocca proprio correre ai ripari: avanti, marsc’!

(E nel dubbio, andate al Cinemino!)

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La Grande Bellezza – Paolo Sorrentino, 2013

Siamo qui riuniti per parlare di Orietta. Orietta, esatto. Quella senza arte ne parte che a una certa compare imbucata a una festa sulla terrazza di Jep, poi si fa accompagnare per tutti i Fori Imperiali (e guardate che la strada è lunga) e se lo porta a letto nella sua antica dimora praticamente dentro la chiesa di Sant’Agnese in Agone, in piazza Navona. Non prima di aver dato vita al più indimenticabile dialogo di tutto il catalogo sorrentiniano:

– Ma tu che lavoro fai?

– Io? Io sono ricca.

–  Bellissimo lavoro.

Insomma, la nostra Orietta, oltre a sciorinare perle indimenticabili, si premura anche di farci visionare la sua umile dimora papesca: spazi ampissimi e vuoti, pavimenti geometrici, sculture di marmo. Un grande freddo e le pareti spesse che pare di poterle toccare e sentirle inamovibili, come se ci fossimo pure noi, là seduti, a dire che per hobby ci facciamo i selfie.  Un futon grigio perla, le lenzuola sicuramente di seta.

La Grande Bellezza – manco a dirlo – è un trionfo di sfarzo, e Sorrentino nel barocco dorato ci sguazza, ma qui opera il suo colpo di coda al design: la ricca che vive al piano nobile della chiesa per illuminare la sua stanza a volta adotta il non plus ultra del kitsch. Una lampada appoggiata per terra, a forma di testa di Buddha.

Ossimorico.

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Colazione da Tiffany – Blake Edwards, 1961

L’appartamento di Holly Golightly potrebbe facilmente incastrarsi in qualche bel palazzo di Milano.

“Bilocale compatto, ottime finiture, cucina all’americana con finestra, palazzo senza ascensore ma ottimamente ed esoticamente abitato”.

Nel film che rese più di tutte un’icona Audrey Hepburn e i grossi gatti rossi (“Gatto”) l’arredamento è chic, è bohemienne, è blanche, è vintage.  In sostanza, è un arredamento di fortuna. Con numerosi tocchi di classe: proprio come la vita a forma di montagne russe della sua abitante – che per reggere la parvenza di glamour fa la messaggera di un mafioso, dà party per 100 persone in 50 metri quadrati, ripiega sulle scale antincendio per fumarsi la dovuta sigaretta e punta al nonouomopiùriccod’Americasottoi50 – ai pezzi di lusso (la povera zebra a forma di tappeto) e alle manie di grandezza (una toletta piena zeppa di ampolle spruzzaprofumo) si alternano arguti adattamenti semantici (l’indimenticabile vasca da bagno trasformata nel divano con più personalità di tutto il cinema americano, piedi dorati compresi) e coscienziosi pezzi di ecologico riciclo (una cassa di legno scassata, che è anche all’uopo un elegante tavolino).

In sostanza, l’arredamento di Colazione da Tiffany è esattamente a metà fra il fascinoso miniappartamento dei vostri sogni e il localaccio sui Navigli dove per un gin tonic annacquato vi sfilano 15 euro (ma è tutto di recupero eh). Il mix letale che alla fine ci porterà a spendere una fortuna per un portaombrelli in Tortona, e a centellinare quel poco che ci resta per il compensato IKEA.

Compromissorio.

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The Royal Tenenbaums  –  Wes Anderson, 2001

Il fatto è che, in un articolo sull’arredamento nei film, Wes Anderson non si poteva lasciare fuori. Forse è proprio tutta la sua filmografia a non poter essere lasciata fuori –  la hall del Grand Budapest Hotel, la carta da parati di Fantastic Mr. Foxle tigri sui pannelli a parete del Treno per il Darjeeling e finanche la profusione di giallo e mobili antichi del corto Hotel Chevalier. Per non parlare, poi, di certe scelte maniacalmente perfette per il Bar Luce, alla Fondazione Prada.

Ma è in The Royal Tenenbaums che Wes ci regala il meglio delle sue inquadrature simmetriche (e poi partono i Kinks): un’Anjelica Huston perfettamente a metà della Sala da Ballo (4° piano), ritta come un fuso su una sedia, che raddrizza quadri con lo stesso soggetto – Margot.  Un vizio di tanti amanti e collezionisti d’arte – come la divina Marchesa Luisa Casati, che si ridusse in rovina pur di diventare opera d’arte, e riempirsi le mura di casa di tele raffiguranti la sua indomita zazzera rossa. In uno spazio dai colori quasi soffocanti per quanto sono caldi – un porpora alle pareti, il giallo grano delle tende, il castano del pavimento – Wes infila candelieri che paiono alabarde e ci azzecca, eccome si ci azzecca. L’intero arredamento dei Tenenbaum segue regole concettuali ben precise, e come mai prima raggiunge quello che è l’obiettivo di ogni artistico mobilio: rispecchiare perfettamente l’anima del proprietario dell’immobile.

Beh ecco, vorremmo tutti l’amore dei film di Wes Anderson. Ma pure la vasca da bagno di Margot Tenenbaum, visto che ci siamo.

Simmetrico.

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Io sono l’Amore – Luca Guadagnino, 2009

Io sono l’Amore è un film elegante.

Pure troppo.

Luca Gudagnino voleva vincere facile e per centrare perfettamente la levatura estetica di questa bella pellicola drammatica non solo si è scelto Tilda Swinton – camaleontica opera d’arte semovente –  ma ha anche deciso di ambientare il tutto – chapeau – nella più bella villa di Milano.

Ora patrimonio FAI, Villa Necchi Campiglio è un gioiello razionalista incastonato fra i fenicotteri di Villa Invernizzi e Piazza San Babila. Interamente progettata dall’indimenticato Piero Portaluppi, fu commissionata dalla famiglia Necchi senza limiti di budget, e forse proprio al loro nome si ispira la storia della famiglia Recchi, che snoda nel film certi segreti malrisposti nella colta borghesia industriale del Nord Italia. E’ proprio nel passaggio di stanza in stanza nella villa che l’anima di ciascuno si disvela: fra la speranza e la gioia e il consumarsi della tragedia la villa resta coprotagonista perenne, un altenarsi ritmico di marmi neri e stanze principesche, le opere d’arte di Sironi e il giardino d’inverno. Il fumoir disegnato da Tomaso Buzzi e la piscina (la prima riscaldata d’Europa) che regala un soffio di quiete sono l’adeguato panorama al precipitare delle privilegiate sorti umane che vi abitano. Un film dove ogni interno si beve con gli occhi.

Altoborghese.

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A Single Man – Tom Ford, 2009

La verità è che non potete dirvi amanti del bello se non avete mai visto A Single Man. Un uomo con il suo lutto, una pistola caricata per sparare e chiudere il dolore, un’amica tragica e totale.

E arredamenti da togliere il fiato.

Se da Tom Ford non ci si poteva aspettare nulla di meno che un’estetica perfezione, questo film supera ogni preavviso: tutto è esattamente dove deve essere, esattamente come deve essere. I vestiti le auto i ragazzi i colori le luci i capelli i cappelli i tacchi i piedi scalzi gli occhiali le occhiaie le camicie le auto il sangue la neve i tappeti le urla l’amore la morte la gioia. Ma sono soprattutto queste dimore, un inerpicarsi di scale fra il legno e il vetro scuro, le luci simmetriche e i divani a mezzaluna, le piante rigogliose e tantissimi cuscini, a rendere chi guarda partecipe di una continua inquadratura di perfezione. I colori caldi in tutte le sfumature della sabbia, della cipria e del castagno disegnano contorni morbidi ed esagerazioni che non si svelano.

Tom Ford ha scelto una villa del 1949, progettata da John Lautner, per il suo capolavoro. Circondata dal bosco e dalle vette. Dentro, ogni singolo pezzo d’arredo racconta una sua storia e la racconta come si deve: un trionfo degli anni ’60 e un lungo canto d’amore alla poesia che si può nascondere anche dietro al disegno di un tavolo di marmo.

Irrinunciabile.

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