The autopsy of Jane Doe

The autopsy of Jane Doe

Regia: André Øvredal | Anno: 2016 | Durata: 86 minuti

Da bambino avevo una conoscenza geografica del cinema: gli inglesi andavano forti nelle commedie, i francesi facevano i drammi, gli americani l’action. Era facile, e devo ammettere che un po’ mi manca quella schematicità.

Con l’andar dell’età ho però scoperto che le cose non erano così semplici. Ho scoperto, ad esempio, che i francesi fanno degli horror superiori ai loro pipponi melodrammatici ma anche che i giapponesi sono tutti matti, che gli spagnoli hanno uno humor speciale, e che i messicani ambiscono a fondare una loro chiesa trinitaria basata su Alejandro Iñárritu, Alfonso Cuarón, e Guillermo “Cicciopanzo” del Toro.

Poi, dalle nebbie di una foresta norvegese, è uscito André Øvredal.

miao :3

Quando dico che è uscito dalla foresta, intendo dire che ha diretto un film comprensibile anche per chi non faccia di cognome Larsen, ma in realtà il suo nome già girava nei vicoli dell’interweb e il precedente Trollhunter è diventato un piccolo cult per gli amanti del genere che non si lasciano scoraggiare dall’idea di vedere un film in vichingo.

The Autopsy of Jane Doe (disponibile su Netflix) è stato invece la sua prima prova su suolo americano.

Era una notte buia e tempestosa (letteralmente), e la famiglia Tilden si apprestava a chiudere bottega quando un’emergenza lavorativa li costringe a fare gli straordinari fino allo spuntar del sole. Ho già detto che la famiglia Tilden non gestisce una panetteria ma un obitorio? No? Bene, lo dico ora: i Tilden sono medici legali da generazioni e, secondo una strana usanza americana, svolgono la pratica forense nel seminterrato della propria magione. È un caso come un altro quello che gli viene presentato dallo sceriffo, eppure varie cose non tornano: a partire dall’identità della vittima (Jane Doe è il nome di rito che si usa per gli ignoti) fino alla causa del decesso e allo stato della casa in cui è stata rinvenuta…e poi perché diavolo il gatto soffia al cadavere??

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The Autopsy of Jane Doe è quindi uno di quei film dalla trama semplice, dalle ambientazioni scarse, dal cast ridotto che riescono nel magico obiettivo di tenerci incollati allo schermo per tutta la loro durata nonostante l’esiguità di spunti che offrono. Nello specifico qui abbiamo: un obitorio, due medici legali e un cadavere (il sempre affidabile Brian Cox, il poco simpatico Emile Hirsch e la necrofilisticamente meravigliosa Olwen Kelly). Punto.

Proprio questo clima di mistero che aleggia sul caso rende la prima parte di The Autopsy of Jane Doe un giallo: c’è un caso da risolvere, e sentire padre e figlio formulare ipotesi e trarre conclusioni mentre segano, spaccano e aprono come fossero una versione moderna di Guglielmo da Baskerville e Adso da Melk è sinceramente avvincente.

Casa e bottega

Poi, da circa metà film, non saranno più tanto gli eventi passati a dover ricevere una risposta, quanto quelli presenti: cosa sta succedendo in quello scantinato?

Se inizialmente sembrava infatti il solito caso di cronaca nera, col procedere della storia è chiaro che le cose siano più complicare di come appaiono e dopo l’ennesima coincidenza o “situazione bizzarra” il dubbio che qualcosa non torni s’insinuerà anche nelle menti più razionali.

Particolarmente ben gestito è in questo senso il rapporto tra i due coprotagonisti (scusate, per me il personaggio principale continua ad essere Jane Doe). Per tutta la prima parte del film, Brian Cox rappresenta la metà razionale del duo, il maestro che guida il giovane che invece ha tanto l’aria di chi preferirebbe pulire una stalla con la lingua piuttosto che stare là sotto. In più di un’occasione infatti, il personaggio di Hirsch – davanti ai sempre più inquietanti eventi – pare quasi cercare negli occhi del padre un’autorizzazione per poter cedere al panico ed è solo il fermo coraggio e senso del dovere di quest’ultimo che lo spinge ad andare avanti.

Quando però anche il padre non potrà più non ammettere che qualcosa non torna ed esclama un “let’s get the fuck out of here”, tutto ciò in cui avevamo riposto la nostra fiducia non vale più, le regolo con cui il padre era tanto a suo agio hanno smesso di funzionare ed il film smette di essere un giallo investigativo per diventare un horror in piena regola.

Due generi antitetici quindi: la deduzione logica e scientifica che si scontra con ciò che non può essere spiegato.

Hellfire

Øvredal, forse per necessità di prendere tempo, forse per volontà registica, cede ora alla tentazione di inserire più di un momento spaventerello (di quelli che ti fanno saltare sulla sedia quando in realtà era solo il gatto che aveva fatto cadere una lampada). Sono escamotage facili, adoperati da registi alle prime armi che non sanno trasmettere quel senso di ansia e paura così presente eppure impalpabile che solo i grandi veri horror presentano. Ad ogni modo, perdonabile per un regista al sue terzo film.

Ma a parte queste piccole sbavature comunque, André Øvredal si conferma un regista serio e metodico dal punto di vista tecnico e un amante delle leggende da quello di sceneggiatura. Pur cercando di non fare spoiler, proprio come in Trollhunter, anche The autopsy of Jane Doe va a rifarsi a quel misto di folklore, leggende e storia che crea il corpus mitologico rurale di ogni paese; in questo caso, il nord-est degli Stati Uniti.

Il mio sogno corrente? Una serie antologica fatta da lui e Robert Eggers.

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