Meat is murder, The Smiths

Meat is murder, The Smiths

Se avete anche solo una vaga idea di chi sia Morrissey, saprete che è una persona particolare. Se non lo conoscete, prendete lo stereotipo dell’inglese freddino, ordinario e compassato e gettatelo nel cestino: il frontman degli Smiths si ama o si odia, e sul proprio temperamento emozionale ha costruito una carriera. A tratti arrogante nelle sue lapidarie asserzioni e spesso provocatorio nel rivestirle di un tono farsesco o malizioso, ad altri terribilmente indifeso nell’abbracciare una profonda insicurezza, contraltare di quel malcelato senso di superiorità, ha saputo dare voce al malessere che solo una tale timidezza e sensibilità riescono a suscitare. È stato uno dei primi a trasformare i motivi che avrebbero potuto renderlo uno sfigato nei suoi veri punti di forza: diversità ed introspezione. Che l’oggetto sia un amore struggente o la repulsione per la società circostante, il modo in cui è vissuto e cantato è sempre frutto di una radicalizzazione che non concede spazio a tiepide vie di mezzo. La parola adatta a riassumere l’approccio di Morrissey alla vita e all’arte potrebbe essere intensità, come quella che mette in ogni singola parola, da quelle destinate a descrivere scene di vita quotidiana a quelle con cui tocca questioni politiche e sociali, riuscendo a declinare questa sua tendenza all’enfasi drammatica tanto in farsa quanto in tragedia.

È questo il personaggio dietro a Meat Is Murder, secondo album in studio degli Smiths. Il titolo, che è anche quello dell’ultima traccia, colpisce per la ferocia: “la carne è omicidio”, un’affermazione potente che preannuncia il contenuto ad alto tasso di provocazione della canzone. Quelli che ruotano attorno all’industria dell’allevamento sono temi particolarmente cari a Morrissey, da sempre vegetariano e fervente promotore delle battaglie animaliste, che trascina il gruppo nell’ardua impresa di affrontare tematiche così complesse e scottanti che metterebbero in difficoltà qualunque compositore, figuriamoci dei giovanissimi (per quanto talentuosi) musicisti ancora agli esordi. Che sia stata la sconsideratezza o l’audacia a portare il giovane Morrissey ad affrontare una tale ambiziosa iniziativa, ciò che è fuori di dubbio è che questa sia frutto di una profonda fede nelle proprie convinzioni. Il risultato è un pezzo capace di provocare la pelle d’oca per tutti e sei i minuti d’ascolto, costruito in modo da ricordare più una litania che non la classica struttura strofa-ritornello-bridge. Il rumore sordo e regolare delle seghe in apertura, mescolato a quello degli strazianti muggiti, dimostra immediatamente che non c’è né spazio né tempo per alcuna edulcorazione e trasporta l’ascoltatore in quel mattatoio che verrà descritto di lì a poco. Con la sua notevole abilità Morrissey riesce a condensare una potente carica drammatica in poche, accurate parole, perfettamente in grado nonostante la brevità di dipingere immagini quanto mai incisive. L’accusa di omicidio addebitata a chiunque mangi carne (ma soprattutto a chi la produce) sembra prendere qui la forma della denuncia più che della condanna, in un evidente tentativo di informare e sensibilizzare il vasto, carnivoro pubblico anglosassone dell’eccidio che si sta compiendo nell’industria dell’allevamento intensivo (in crescita in quegli anni anche grazie alla deregolamentazione attuata dal governo inglese e aspramente descritto da Coe ne La Famiglia Winshaw attraverso il personaggio della spietata Dorothy). Alla base di questa canzone sta un’umanizzazione degli animali che – condivisibile o meno – si rivela indubbiamente efficace nel forzare il pubblico ad una riflessione sull’opportunità e sulla portata di una loro maggior tutela, ma che soprattutto si rivela interessante in relazione al resto dell’album.

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Il vegetarianismo non costituisce il tema centrale del disco, risolvendosi anzi in quest’unico pezzo, ma è interessante considerarlo nel contesto delle altre tracce e persino dell’immagine di copertina. Quest’ultima raffigura la rielaborazione di una foto scattata durante la guerra in Vietnam; alla frase “Make war not love” che un giovane soldato americano si era scritto sull’elmetto, beffandosi del movimento pacifista, viene qui sostituita quella che dà il titolo al disco – la scelta non si rivela casuale. È in guerra che l’uomo riesce a perdere ogni traccia di umanità, nel fango ma ancor più nelle sale del potere, ed è la guerra a fornire l’esempio più tangibile e radicale di violenza. Credo che questo sia il vero tema, quello che accomuna tutti i tasselli del puzzle. Animali destinati al macello, studenti vessati da un sistema scolastico distante, incompetente e crudele (The Headmaster Ritual, Barbarism Begins At Home – la legge che vieta le punizioni corporali nelle scuole sarebbe stata varata nel Regno Unito soltanto nel 1987, ndr), ragazzi colpiti dal bullismo (Rusholme Ruffians), innamorati non corrisposti (I Want The One I Can’t Have, Well I Wonder), persone afflitte dalla solitudine e dalle depressione (What She Said) o logorate dall’apatia per l’amara consapevolezza della propria impotenza dovuta a una semplice appartenenza di ceto e di censo (Nowhere Fast) – ciascuno di questi casi dimostra quanto la violenza sia diffusa e pervasiva. È allora che, pur senza perdere valore né costituire un’attenuante, sembra sfumare in termini di realisticità l’esortazione di Meat Is Murder. Come si può sperare di riuscire a trattare con umanità gli animali quando è l’uomo stesso a rivelarsi bestiale? Io non lo so, ma come dice Moz nonostante tutto, “My faith in love is still devout”.

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Chiara Marchisotti

Album | Meat Is Murder
Artista | The Smiths
Anno | 1985
Etichetta | Rough Trade
Durata | 39:46

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