Il giovane (e affamato) Holden

Il giovane (e affamato) Holden

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Fresco di stampa, il libro “Fictitious Dishes”, della fotografa e designer Dinah Fried, raccoglie alcuni dei piatti più noti della letteratura, nel tentativo (e chissà se mette a segno il tiro) di immortalarne l’essenza. Prendendolo come un esperimento per scoprire se il detto secondo cui “siamo quello che mangiamo” vale anche per i personaggi letterari, mi fermo a osservare due toast con cetriolini associati a “The catcher in the rye” (cioè “Il giovane Holden” di Salinger). Sarà che ho una pessima memoria, sarà che ho un’innata avversione per i cetriolini, ma io in quella foto Holden proprio non lo ritrovo. Il motivo è semplicissimo: per me, Holden non mangia. O meglio, per essere precisi, è “uno che mangia pochissimo. Sul serio. Ecco perché sono magro da far paura.” Urge rileggere, ripercorrere, controllare. E allora, faccio un passo indietro.

Fictitious dishes

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Toast e cetriolini per Il giovane Holden in Fictitious Dishes
Toast e cetriolini per Il giovane Holden in Fictitious Dishes

Holden Caulfield è l’adolescente più celebre della letteratura: mente, fuma, beve, lascia la scuola, vaga da solo per New York sotto la neve. E, soprattutto, odia gli adulti. Odia la loro ipocrisia, quella falsità mascherata da praticità, la loro ottusa incapacità di vedere dentro e oltre le cose. Alla decima pagina, “Il giovane Holden” si rivela già per quello che è: un libro sincero. “Sono il bugiardo più pazzesco che abbiate mai incontrato. Una cosa mostruosa. Perfino se sto andando all’edicola a comprare una rivista e qualcuno mi chiede dove vado, ecco, io sono capace di dirgli che vado all’opera. È terribile.” – Ndr: Quale bugiardo confessa di essere bugiardo? Ammesso che questa non sia una bugia…Salinger è riuscito dove i più falliscono: ha creato un personaggio vero, con problemi veri e desideri autentici quanto le sue (nostre) paure e tra un “e compagnia bella” e l’altro fa, dice, pensa e rappresenta cose capitali.

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salinger

Espulso dal prestigioso college di cui odiava tutto (in sintesi, ancora, di cui odia l’ipocrisia), Holden decide di spendere i suoi giorni di passaggio dalla scuola tanto odiata alla tanto temuta casa -dove infatti lo aspettano le ramanzine del padre e la delusione della madre- girovagando per New York. Per questo, per muoversi cioè in questo spazio di libera transizione, “Il giovane Holden” è un romanzo di formazione didascalico. Ma allo stesso tempo è anche un romanzo d’avventura, di esplorazione, di recherche, di quête “e compagnia bella”. Questa storia è un’inchiesta sullo stato delle cose quando hai sedici anni e troppo cervello e le gambe che fremono e non puoi fare a meno di andartene fuori in cerca della vita. E per vita, sia chiaro, non s’intende roba tipo diploma-laurea-matrimonio-lavoro-figli-divorzio-morte. No, per vita s’intende la vita vera, quella fatta di incontri e fiducia e perdita; quella fatta di hotel decadenti, musicisti squattrinati, taxi, prostitute.

“Se c’è una cosa che odio è andare a letto quando non sono nemmeno stanco.” Odia un sacco di cose, Holden, e si fa un sacco di domande strane (“dove vanno le anatre quando il lago ghiaccia?”), quelle che non diresti mai a nessuno o scacceresti dalla mente dandoti da solo dell’idiota o dello strambo, lui no: lui quelle domande le fa a tassisti, baristi, ragazze (già perse loro, già adulte), professori. E a se stesso. E a noi, al di qua della pagina. Dopo un po’ la sua voce, quella voce che è il romanzo, che da sola fa il romanzo, prende piede, sale di volume e prepotenza e finisce per occupare un sacrosanto posticino nella testa del lettore. Presto, ci si ritrova a riconoscere pensieri fatti anni fa. Desideri dimenticati. Dubbi, una montagna di dubbi. E giudizi, perché Holden, a differenza di molti adulti, ha le idee chiarissime.

Il_giovane_holden_the_catcher_in_the_rye-Salinger-150Sa cosa gli piace e cosa no e sa motivare le sue scelte e le sue parole. Ha un nettissimo senso morale, un istinto della giustizia che usa, insieme al fastidio, come strumento di selezione e allarme relazionale. Ha una straordinaria propensione per il succo delle cose, per quel centro magmatico che sta sotto la crosta dell’apparenza, ha insomma, come ha detto Baricco, un’ossessiva attenzione per le cose in quarta fila. A Holden sta a cuore l’ultimo aspetto di ogni questione, il dettaglio rivelatore che nessuno, a parte lui, vede. “Alla Pencey, il sabato sera, la cena era sempre la stessa. E siccome ti davano la bistecca passava per un avvenimento.” Forse proprio per questo il cibo non gli interessa: conosce benissimo il significato che sta dietro quella bistecca. Conosce cosa pensa chi il cibo lo prepara e che influenza ha su chi lo mangia. Sa cosa rappresenta nella società una bistecca. A lui interessa nutrirsi sopra ogni cosa, ma non farsi fregare da ciambelle, bacon e “compagnia bella. Forse, la caratteristica principale del personaggio di Holden Caulfield è proprio la fame. La fame come curiosità, come voracità, come bisogno primario, come mezzo per la sopravvivenza, come desiderio. Ma con questo per lui il cibo non c’entra. Altro che toast e cetriolini, Holden punta a bocconi ben più grandi, spesso amari, di certo duri da mandar giù. “In teoria avrei dovuto seguire questa dieta dove mangi un sacco di amidi e schifezze varie, per mettere su peso e via dicendo, solo che non l’ho mai fatta. Quando mangio fuori di solito prendo un panino al formaggio e un latte al malto. Non è granché, ma nel latte al malto ci sono un sacco di vitamine. H. V. Caulfield. Holden Vitamina Caulfield.” È un ribelle, Holden Caulfield. Contro il sistema cibo, contro il sistema simbolico del cibo come di tutte le altre cose. Dannati cetriolini!

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“Holden Caulfield pensa tu sia un ipocrita”

 

 

La colazione del NON ribelle

Lungi da me prodigarmi in un errata corrige della foto di Dinah Fried, chè la filologia è una roba antipatica. Mi limiterò a dispensare dosi tempi e modi di preparazione di quello che Holden NON mangia. In altre parole: benvenuto colesterolo.

Ingredienti (per ciascuno dei ragazzotti americani conservatori che alberga nelle vostre coscienze e nei vostri stomaci):

  • 2 Uova
  • 2 fette di bacon
  • 4 fette di pan carrè
  • Formaggio cheddar
  • 1 Pomodoro da insalata
  • Prosciutto cotto, un paio di fette
  • Panna, qb
  • Sale e pepe qb
  • Tabasco, qualche goccia
  • Succo d’arancia
  • Latte
  • Caffè

Nota: Innanzitutto mi sento di chiedere perdono a tutte le mucche che contribuiscono a produrre quelle buone mozzarelle nostrane con la goccia, ma oltreoceano si usa il cheddar (sì, quello arancione che nasce direttamente nella confezione di plastica già tagliato in pratiche fette).

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Dunque, partiamo dalla ciccia: il bacon. Padella antiaderente calda bollente ustionante e giù di fettine di bacon. Quando sarà fritto (nel suo stesso grasso) e croccante ma non duro, andrà tolto dal fuoco. Nella stessa padella, piena di unto suino colato dalla pancetta, vanno fatte le uova strapazzate. Prima, bisogna ovviamente sbattere le uova con un goccio di panna liquida, sale, pepe e qualche goccia di tabasco (volendo eh). Stracciarle in padella e metterle nel piatto, accanto al bacon, quando sono ancora soffici e leggermente umide.

Intanto darsi da fare con i toast: pane, prosciutto cotto, cheddar, pomodoro, pane. Ripetere due volte che di abbondanza non si muore (insomma…) e infilare nel tostapane.

Per diluire cotanto “mappazzone” nelle vene lo chef consiglia di annaffiare il tutto con una buona spremuta di arancia (ma anche il succo d’arancia nel cartone va benissimo) e/o un buon caffè americano (dopo il cheddar non staremo certo a fare gli schizzinosi puristi del caffè!) macchiato col latte fresco.

E voilà, buona angioplastica a tutti!

 

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