Denti rotti e cuori spezzati | Ultima uscita per Brooklyn, Hubert Selby...

Denti rotti e cuori spezzati | Ultima uscita per Brooklyn, Hubert Selby Jr.

"Last Exit to Brooklyn", Uli Edel, 1989.

Spense la radio e annunciò che era meglio tornare ad uptown. Stare a Brooklyn dopo un po’ diventa opprimente. Sì, andiamo. Magari stasera troviamo un po’ di movimento.

Sono stata alla presentazione in occasione della ritraduzione di uno sporco romanzo americano degli anni ’50 in una serata milanese gelida di un paio di mesi fa o poco più. Prima di entrare nella libreria ho fatto come mio solito tre volte il giro completo dell’isolato e mi sono fermata a bere due caffè amari in due posti diversi. Spero sempre non ci sia nessuno che mi veda quando faccio cose di questo tipo.

Contando anche me che così fa numero, alla presentazione eravamo in 6. Non sto scherzando, mi ricordo le facce di tutti e 5 gli altri – le ho guardate a lungo perché eravamo tutti in anticipo illudendoci all’unisono di non trovare posto a sedere insomma eravamo 6 persone inutilmente ansiose e ancora neanche avevamo letto il libro, figurati dopo. Ricordo bene anche quelle sedie in plastica vuote che non si riempivano, una tristezza cosmica paragonabile grosso modo solamente a una giornata senza pausa pranzo che tra le giornate no è la giornata no per eccellenza, con scarsissime possibilità di migliorare anzi direi nessuna possibilità di migliorare in assoluto.

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Il libro me lo rigiravo tra le mani ci picchiettavo sopra ma non l’ho letto subito né rientrando in treno né appena arrivata a casa perché temevo fosse una voragine e aspettavo arrivasse il momento buono anche se allo stato attuale delle cose non ho idea di cosa sia il momento buono. L’ho letto in due nottate della scorsa settimana perché a insonnia stavo parecchio bene dai non mi lamento e mi son detta, posso affrontarlo. È una voragine, esattamente, ti lascia con una sensazione di unto addosso e con la voglia di non sentir parlare nessuno per le prossime quattro vite che inevitabilmente si succederanno a questa e ora che l’ho letto chi lo sa quando mi riprendo più.

Ultima uscita per Brooklyn – ultima nel senso che se non svolti qui ti ritrovi a breve inevitabilmente in buco nero gelatinoso dal quale non uscirai più, ultima nel senso che oltre qui non c’è più niente di niente – è stato pubblicato da Hubert Selby Jr. nel ’57 ed è pieno personaggi tanto mediocri quanto reali. Mentre lo leggevo mi immaginavo cosa potesse chiedersi chi arrivava da un non ben precisato ma sicuramente infausto lontano fino a New York negli anni ’50, città apparentemente perfetta come un grasso bruco infilzato all’amo ma in realtà sconquassata dagli strascichi della Depressione, anche quella con la d minuscola. Non credo si chiedessero “Che cosa può offrirmi New York” ma piuttosto “Io che cosa voglio da New York”. Disgraziati sì, ma con un ego consistente altrimenti uno nemmeno ci prova a riscattarsi.

La capitale del mondo si riempie in quegli anni di reduci di guerra e di immigrati da posti meno attraenti e non tutto va sempre per il meglio nelle periferie che vanno ad occupare in massa e che sono un po’ l’ultimo tratto dell’apparato digerente della città, quel tratto tanto necessario quanto fastidioso e ripugnante.

Brooklyn è descritta da Selby Jr. come la parte più marcia della grande mela e sotto la muffa si nascondono – ma neanche troppo bene – gli orrori del sottoproletariato. Voglio dire, vista dai margini New York doveva proprio dare l’impressione di essere la città di belle speranze e nel medesimo tempo la città di dove vado a sbattere ritmicamente la testa stasera che proprio non ho la forza di tornare a casa e a pensare a come pagare la bolletta della luce che tanto non c’è mai niente in tv dimmi tu aiuto ma io come diamine ci sono finito qui guarda meglio che lasciamo stare. Qualcosa di questo tipo.

Hubert Selby Jr. era un reduce di guerra tubercolitico – a un certo punto si è trovato suo malgrado a dover fare a meno di un polmone e 11 costole – invalido, disoccupato, tossicodipendente – a essere precisi, usava l’eroina come analgesico quindi non so se vale insomma ognuno ha i suoi rimedi della nonna – frequentatore di porti e la parte più ferita di Brooklyn la conosceva bene. Una ferita pulsante, dolorosamente infetta e popolata dalla solita fauna vivace e piena di aneddoti interessanti, gli unici aneddoti davvero interessanti, quindi senzatetto tossicodipendenti delinquenti travestiti prostitute operai con 18 ore di lavoro giornaliere e mogli e figli che detestano e altre comunità relegate ai margini come polvere occultata sotto i tappeti che periodicamente viene smossa e in quel momento si alza letteralmente un polverone ingovernabile che fai fatica a guardare perché in realtà ci rivedi te stesso.

Hubert “Cubby” Selby Jr.

Dopo 10 anni costretto a letto Selby Jr. si dice che quasi quasi si mette a scrivere qualcosa. L’alfabeto – nonostante tutto – lo so, si dice. Mal che vada mi faccio guidare dal mio orecchio musicale perché sono sempre stato innamorato della musica che sento nei discorsi che si svolgono a New York.

Un altro giorno un altro dollaro – È morta la regina – E col bambino siamo in tre – Tralala – Sciopero – Lafinedelmondo, questi sono i titoli delle 6 parti che compongono il romanzo. I personaggi sono sempre i soliti sporchi disgraziati e sono talmente pieni di sé che si ripresentano ciclicamente, te li ritrovi davanti incollati sulla pagina una volta vittime, una volta carnefici. Li detesti ma ti fanno anche pena e non capisci mai quale delle due sensazioni prevalga quindi dai calci vuoti alla sedia e contemporaneamente piangi. Tutto sommato, direi che si tratti di un buon compromesso.

Personaggi senza morale, senza lealtà. Come la prostituta quasi maggiorenne dal nome infantilmente cantereccio, Tralala – con quei due colpi di lingua netti nella pronuncia proprio come l’altrettanto innocente e altrettanto corrotta dalle circostanze, Lo-li-ta – che decide di utilizzare il suo unico talento (un décolleté impegnativo) per adescare marinai e i loro portafogli o la travestita Georgette, che in appartamenti casuali ha elettrizzanti incontri ravvicinati con la benzedrina ma in realtà cerca solo l’amore vero. L’amore, però, è un lusso che nei bassifondi nessuno può permettersi quindi se mai qualcuno ci amava, lo abbiamo reso ridicolo per disfarcene una volta per tutte. Non credo ce lo perdoneremo mai.

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Ruthy continuava a riempirle il bicchiere appena lei lo svuotava e le disse di lasciar perdere. Capita. È inutile che ti ci strappi i capelli. C’è tanto di meglio nella vita. O forse non tanto, ma abbastanza. Tralala ringhiò, finì il bicchiere e disse a Ruthy di riempirglielo ancora.

Questo romanzo è una ricca incubatrice di soggetti senza peli sulla lingua. Come lo stile di Selby Jr., un flusso continuo senza freni inibitori, senza punteggiatura. Si fa ingerire solo da stomaci fortissimi. Una scrittura che ti rimane bloccata a metà strada facendoti fare pessimi incubi notturni durante i quali il tempo si ferma e diventa come la morsa di un pitone asfissiante ma non aveva le lancette quell’orologio? Non ticchettano più gli orologi?

Violenti ritratti di uomini che odiano le donne – la letteratura americana in realtà ha sempre avuto problemi col tanto temibile matriarcato, a partire dalle mogli belle, giovani e morte prematuramente dei racconti di Edgar Allan Poe al mito del maschio fuggiasco da detestabili figure femminili nel western letterario, ma questo discorso anch’esso un po’ indigesto lo rimandiamo oppure se proprio DM ME WHEN YOU’RE FREE FOR HANGOUT – madri che odiano i propri figli e non se ne vergognano e la vera devastante assenza d’amore che colpisce tutti perché nessuno ha il coraggio di stare con chi e dove davvero vorrebbe stare, fino ad ammalarsene, di queste eterne mancanze e di queste eterne bugie.

Lei se n’era andata per qualche giorno portandosi via il bambino – Harry non si era neanche accorto della sua assenza – ma stare dai suoi era anche peggio e così dopo qualche giorno era tornata lì dove quantomeno poteva guardare la tv.

Mentre scorri lo sguardo su questo getto ininterrotto di narrative of self-delusion, in una lunga serata ti ritrovi trascinato al locale del Greco e mentre ti bevi qualcosa di apparentemente innocuo giusto per dimenticare la pessima giornata che hai passato e che domani si ripeterà sicuramente per filo e per segno, sembra tutto perfettamente tranquillo. Ti sposti un secondo a infilare una monetina nel jukebox per cambiare quella dannata canzone e quando ti giri lo scenario soporifero è completamente cambiato perché tutti all’improvviso e chissà per quale motivo – non c’è, il vero motivo – si stanno prendendo a cazzotti sui tavoli e ci sono bicchieri che volano e qualcuno di schizzinoso che si rinchiude nei bagni a frignare e un frastuono indefinito e infernale fino al climax interrotto dal suono di denti che saltano e setti nasali irreparabilmente fracassati e quindi ora amici come prima. Tu ovviamente nel frattempo non sei rimasto a guardare ma ti sei subito – prima che tutto finisse improvvisamente escludendoti – buttato di peso sul primo che capita tanto uno vale l’altro, nella mischia non si capisce né distingue niente e nessuno e comunque tu non ce l’hai veramente con nessuna di quelle persone, quindi non ha senso stare qui a farsi tante domande.

E il rumore non era del tutto sgradevole perché era attutito dalle urla e dalle imprecazioni.

Ritornata la pace continua a riecheggiare all’infinito la canzone che avevi selezionato nel jukebox. Il ritmo bepop che avevi scelto è sempre lo stesso: Salt Peanuts, Salt Peanuts, Salt Peanuts e così per sempre. Queste due parole in simbiosi con quel trombettista precoce che è stato Dizzy Gillespie. Il pezzo che hai scelto è perfetto per la situazione perché il testo, quelle due paroline insistenti e ripetute e buffe, non significano niente. Si tratta di un’omofonia sconcia che ha la stessa rilevanza della tua esistenza e non credo veramente tu voglia che io stia qui a quantificare entrambe le cose.

S * O * F * T / P * E * N * I * S

Arrivati a questo punto, fossi una frickettona new age ti direi, caro Hubert Selby Jr., che ‘sta volta non è andata bene, si vede che non era destino, ma in un’altra delle nostre numerose vite sicuramente io e te ci incontreremo dal Greco davanti a una birra – la benzedrina io no, non t’offendere ma non c’ho proprio il fisico e inoltre tremo al pensiero che con la Melatonina Zinco-Selenio faccia costrasto, solo una birra, grazie – e mi racconterai di tutti i tuoi amici coloriti che probabilmente non vorrei incontrare mai nella vita perché sono pigra e loro sono sempre parecchio agitati quindi non saprei bene che cosa farci una volta che ce li ho davanti insomma dove mettere le mani, ma sono comunque curiosa di sapere cosa combinano e cosa combinano tu lo sai dire benissimo. Ma non lo sono, una frickettona new age, quindi caro Hubert Selby Jr. ti dico che noi non ci incontreremo proprio mai e sapessi che peccato, perlomeno per me. A questo punto spero sinceramente di riprendermi presto che così non ci penso più.

E uno che deve fare in una serata così. Con due gocce di benzina nel serbatoio e senza soldi per riempirlo. Ma tanto, dove vuoi andare.

Titolo: Ultima uscita per Brooklyn

Autore: Hubert Selby Jr.

Anno: 1957 (2017)

Editore: Big Sur

Pagine: 350

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