Critica con il critico: intervista a Matteo Marchesini

Critica con il critico: intervista a Matteo Marchesini

Cosa significa fare critica? Che spazio occupa nel dibattito culturale? C'è vita nel panorama letterario italiano di oggi? Di queste ed altre questioni abbiamo parlato con Matteo Marchesini.

critica letteraria

Qualche tempo fa, sempre su queste pagine (web), parlavo di critica a proposito di Casa di carte, una raccolta di saggi di Matteo Marchesini utilissima ad orientarsi nel panorama letterario italiano e ad affinare il senso critico, prezioso salvagente nella marea di oggetti libreschi e culturali che ci sommerge.

Con l’uscita dell’ultimo lavoro critico di Marchesini, Scienza di niente (Elliot), vorrei proseguire idealmente quel discorso, stavolta parlandone direttamente con l’autore.

SALT: Partiamo da Scienza di niente; nel libro fai una premessa metodologica, ovvero “parlare attraverso i testi di ciò che testo non è”. Puoi dirci di più?

Marchesini: Mi rifaccio a Franco Fortini, secondo cui il critico è colui che parla di tutto a proposito di una determinata occasione. Il critico media tra diverse zone dell’esperienza, tra l’opera e vari ambiti della vita, confrontando l’opera con il resto dell’esistenza. La critica dunque non è neutrale e porta inevitabilmente con sé dei valori dall’esterno; né ha il ruolo sacerdotale di mediare tra autore e pubblico: il critico è uno scrittore come un altro, che però scrive di libri, e la critica in quanto tale è parlare di opere d’arte attraverso le opere d’arte.

Ne consegue una visione olistica anziché specialistica della critica…

La critica, come tutte le discipline e le arti che hanno a che fare con l’uomo intero, possono guardare ad una sua zona ma quella zona non è scindibile dall’intero. Fare della critica letteraria una disciplina a parte non sarà mai del tutto attuabile, perché presuppone inevitabilmente una certa idea di società, di cultura e di esistenza.

Ma qual è, oggi, lo spazio riservato alla critica nel dibattito culturale?

Originariamente la critica della letteratura, della cultura e della società facevano tutt’uno; la letteratura aveva un posto eminente nella critica perché ce l’aveva nella formazione della cultura.
La modernità ha portato alla specializzazione di alcune discipline e ha molto diminuito lo spazio della letteratura nella cultura generale. Oggi, ad esempio, alcuni autori dal naturale talento critico si occupano di altro piuttosto che di letteratura, chi di cultura in generale, chi di critica della cultura, chi di serie televisive o di cinema. La critica della letteratura dunque si trova ad occupare uno spazio più ristretto, ma per me irrununciabile. Certo è che diventa sempre più difficile collegare questo spazio con gli altri campi dell’esperienza e, in questo, farsi capire.

E ciò che conseguenze ha per il lettore? Personalmente penso che tanto minore è lo spazio della critica, tanto maggiore sarà quello del marketing, per cui il lettore si ritrova non più ad ascoltare il critico ma a leggere fascette o a sottostare alla dozzina dello Strega…

Questo è vero, ed è triste; nello stesso tempo però che la critica sia stata legislatrice è una cosa non così vera. Ma oltre al marketing, che è un fatto, la conseguenza è che i letterati – persone che dovrebbero avere un critico interiore – a forza di non leggere critica danno per scontata una storia della cultura e della letteratura che in realtà rappresenta solo la sensibilità di un determinato periodo storico.

Marginalizzando la critica si perde la capacità di relativizzare i giudizi: si tende a dare per scontato un quadro e a non saper stabilire rapporto tra presente e passato ritrovandosi a giudicare il passato restando però schiacciati sul presente.

Un paio d’anni fa ad esempio è uscita per Mondadori una raccolta di interventi critici di Giovanni Raboni (Meglio star zitti?, nda). Raboni giudicava con sarcasmo e disinvolta intelligenza autori sui quali non esiste più alcun dubbio, come Tabucchi, Perec o Borges. Oggi è impossibile leggere e far discutere un testo del genere perché la logica dell’ipse dixit non permette di discutere il canone – se non attraverso boutade, perché la società del marketing ha previsto e parodizzato la figura dello stroncatore.

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A proposito di canone, mi viene in mente ad esempio la tua critica di Gadda espressa in Casa di carte. Molti potrebbero considerarla eresia proprio per lo status di “mito letterario” di Gadda…

Il problema non è tanto se piaccia o meno un autore, ma la sensibilità, il gusto e le argomentazioni di un dato giudizio. Tant’è vero che spesso critici intelligenti ma con opinioni opposte dicono, per arrivare ad opposte conclusioni, cose molto simili. Ciò che porta all’impoverimento è il non saper più discutere.

Su Gadda, Baldacci osservava come egli ieri e oggi sia considerato il trasgressore – e come tale ben accetto – di una classe media supremamente bramosa di far vedere come accetta il diverso. Non vedere come un autore sia indiscusso in un certo periodo a causa della complicità di una certa cultura e mentalità significa non volersi relativizzare.

A tal proposito ho letto di recente La Collezione di Mughini, già di per sé una sorpresa perché lo avevo lasciato a inneggiare alla Juventus su Mediaset e l’ho riscoperto scrittore di grande cultura e appassionato bibliofilo. Nel suo libro è stato interessante scoprire autori come Buzzi o Pizzuto, considerati da Mughini segnanti in certe fasi della cultura italiana e oggi praticamente scomparsi: una conferma che il passato letterario è subìto dogmaticamente in base al revisionismo fattone nelle epoche successive…

La domanda critica da farsi è sempre: come siamo arrivati qui? 

Bisogna risalire la genealogia delle opinioni, magari per riconfermarle in seguito, ma dopo aver sgombrato più possibile il campo dai presupposti: straniare la realtà in modo da vederla come se la si vedesse per la prima volta, ripulirla dalle incrostazioni degli stereotipi.

Dunque, alla luce di queste osservazioni, cosa potremmo dire del panorama contemporaneo? Come sta l’Italia letteraria?

Trovo efficace è la formula di Berardinelli: “il romanzo è rinato più come genere editoriale che come genere letterario”: praticamente abbiamo romanzi che sembrano telefilm spiaccicati su carta. Lo stile è diventato uno “stile editor” che “loro” direbbero chiururgico: una recita-esibizione dell’esattezza rarefatta che vuole essere insieme crudele e soave. Anche solo nei titoli delle ultime stagioni, improbabili e goffi, che sempre vogliono essere insieme perentori e struggenti.

E nel gioco delle parti, così come c’è il finto stroncatore, c’è anche il finto mostro, ovvero qualcosa di diversissimo da questo stile editor, ma che tuttavia è “opposizione di regime”, come avrebbe detto Pannella: scrittori bovaristici come Moresco, o in altri casi scrittori con dignità letteraria ma che sono epigoni di epigoni come Michele Mari. Questi casi sono ipervalutati come mostri, perché questa è l’immagine che il filisteo ha della letteratura alta: da una parte stile editor e dall’altra queste cose qui.




Come spesso accade, la letteratura è dove non si pensa che sia, è dove meno la si cerca, in poeti e prosatori che non inseguono affannosamente né i fatti dell’ultimo giorno né le stilizzazioni.

Permettimi un affondo su questa polarizzazione della letteratura: stile-editor o mostri. Possiamo dire che la letteratura non stia benissimo anche perché si fossilizza su queste posizioni?

Si, infatti più si restringe l’aiuola letteraria, più per avere una posizione all’interno di uno dei due campi bisogna estremizzare caricaturalmente i propri connotati perché siano subito riconoscibili. Ed ecco che immediatamente si diventa la parodia di sé stessi.

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matteo marchesiniE come si esce dall’aiuola letteraria?

Non attraverso un tentativo volontaristico di farlo, ma “diventando ciò che si è”, restando fedeli a quello che si è anziché a ciò che il campo in cui si agisce vorrebbe che noi fossimo. Non serve qualche strano gesto ma, se si ha da scrivere qualcosa, farlo nella forma in cui è più congeniale farlo, o anche tacere ogni tanto!

Avviandoci verso la conclusione, proviamo ad alleggerire un po’ il tono: hai un guilty pleasure letterario?

Penso che in letteratura non esista questo tipo di dimensione. La cattiva azione letteraria è l’adulterazione. Quando un prodotto non è adulterato, che sia alta cucina o McDonald va bene comunque, il problema è McDonald che finge di essere alta cucina, che è un po’ la vecchia questione del mid-cult.
I piaceri sono piaceri; io sono stato a lungo consumatore di gialli – e non dico Simenon ma quei gialli che bevi in una notte perché sono meccanismi di suspence perfetti e che poi ti dimentichi – ma senza nessun senso di colpa.

E quali sono invece, i 5 libri o autori da leggere necessariamente?

Premetto che non si devono per forza leggere nemmeno 5 libri nella vita, ma se dovessi scegliere i miei ti dico:

  • La Commedia
  • Leopardi, il più possibile
  • La recherche
  • Montaigne
  • Simone Weil, anzi Etty Hillesum!

Infine, prima di salutarti, ti chiederei un giudizio sintetico su alcuni autori e libri di cui abbiamo parlato qui su SALT:

  • Bukowski: l’adolescenza
  • Emanuel Carnevali: mi stringe il cuore, struggente
  • Houellebecq: l’autore che tutti volevano che arrivasse; ha qualità notevoli, ma esagerate dai lettori perché avevano fortissimo bisogno di qualcuno che rappresentasse “quella parte”
  • La macchia umana, di Roth: un bel romanzo educato
  • Calasso: il vero Calasso autore è l’editore
  • Magris: ragionevole, educato: ha l’agio del grande conoscitore, ma come prosatore è tenue
  • Miller: un lirico e un oratore, straordinario

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