Cinema a buffet, La terrazza di Ettore Scola

Cinema a buffet, La terrazza di Ettore Scola

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In questa Roma sudata di fine maggio non si può fare  a meno d’incappare  nell’eterno spettacolo radical chic dell’aperitivo in terrazza. Come un presepe vivente chardonnay alla mano, va in scena il rituale serale (e seriale) del buffet freddo, tramandato di padre in figlio, di lungotevere in lungotevere. Dress code: para-intellettualismo vintage, con signora al seguito. Così, banditi i menù a la carte tanto impegnati e impegnativi, troppo destroidi, si gioca a fare più frizzante il disincanto.

Non che sia poi prerogativa nostra postmoderna (ecco, entriamo nel clima) questa di fare la festa alla morte sociale. Eh no, non ci si è inventati niente neppure stavolta, perché a monte di tutto ci sono come sempre loro, gli sfavillanti anni ’80. Cascata di prosciutto e melone, cocktail di gamberi, spiedini di frutta, risotto all’onda: l’estate borghese all’italiana è presto fatta. Se poi ci aggiungete un temporale improvviso, un disco di Dalla in sottofondo e una bella lite sulle sorti del marxismo nel cinema moderno avrete quasi completato il quadro. Quasi, perché manca invitare due amici, che so, un Tognazzi abbronzato, magari Mastroianni, Gassman con il ciuffo brizzolato, la Sandrelli sempre in fiore, le battute tranquilli che ve le scrivono Age e Scarpelli, le musiche – non si scappa – Trovajoli e alla regia, ça va sans dire, Ettore Scola.

Ecco, questa è La terrazza.

La-terrazza-Film orami classico, capolavoro di citata – e auto citata – amarezza, arrivò all’alba di quegli ottanta a segnare l’inizio della fine. Fine della politica, fine del maschilismo, fine della tv di qualità, fine della comicità, fine della scrittura, fine di una generazione. Soprattutto fine di quel cinema che da/di noi ha fatto la storia.Ma che deve scrivere? -Una vicenda sommaria e sciatta che frequentemente scade nel bozzettismo più bieco. – In sé parla di battute di seconda mano che non nascondono una sostanziale mancanza di ispirazione. – E manco risollevano le sorti di questa grigia stagione cinematografica.” Eccolo il focus della visione di Scola, un pastiche di delusione, arrendevolezza, incapacità di fare autocritica costruttiva e allo stesso tempo tenerezza, autoironia, incoscienza.

Già la struttura della vicenda pare nevrotica e narcisista non meno dei personaggi che le si agitano dentro: divisa in cinque capitoli/strofe, ognuno corrispondente alla storia di uno degli invitati all’aperitivo in terrazza,l’intera trama si regge solo sul ripetersi analettico della prima scena del film, quella in cui la biondissima padrona di casa avvisava gli ospiti che la cena è servita. Come uno sciame d’api in un alveare – la ben organizzata alta società capitolina – tutti si accalcano intorno al tavolo con i vassoi d’argento, in un ronzio confuso da cui emergono solo schegge di discorsi, del tipo “i giovani…mangiano solo verdurine, borragine”.

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Non  caso, visto che i nostri protagonisti sono tutti piuttosto agée, tutti uomini, tutti disperati, tutti salottieri dell’intellighenzia di sinistra: uno sceneggiatore in crisi sull’orlo del collasso psichico, un giornalista ormai al tramonto della propria carriera che supplica la moglie (più giovane più bella più brava più forte) di non lasciarlo, un funzionario della Rai anoressico, un produttore tanto ricco quanto solo e volgare, un deputato del PCI in preda a una cotta adolescenziale per la sua giovane amante. L’unica cosa che forse li salva dal disprezzo dello spettatore è l’amicizia, come spesso avviene nel cinema di Scola. Le donne e i giovani ci sono, ma restano sullo sfondo, non perché non contino, ma anzi proprio perché i veri protagonisti del presente, del tempo reale e non narrativo, sono loro. Forse quel Caro amico di Lucio Dalla in sottofondo mette tutti d’accordo, sul futuro, sulla tristezza, sul bisogno di raccontarsi ancora tra amici così come si è, inadeguati.

il buffet

Mosaico di citazionismo, gioco di scambio di personalità, con tanto di sosia di noti personaggi che ne interpretano altri, La terrazza nel finale si ripiega ancora su se stesso, chiudendo il sipario con una scena gemella (ma eterozigota) dell’inizio: sono ancora tutti lì, immutati, attorno allo stesso buffet con gli stessi vassoi d’argento. Tutti tranne uno, Sergio, il funzionario della Rai morto di stenti e fame sotto la neve finta del set di Capitan Fracassa. Il più silenzioso, il meno grottesco, con la bocca chiusa come lo stomaco, preoccupato per se stesso, per il proprio peso calante di giorno in giorno, come appassisse, destinato all’inconsistenza. L’unico, che in qualche modo cambia, morendo.

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la società opulentaIl cibo, in questo senso, ha le sue colpe: è onnipresente eppure sembra che a nessuno interessi, tutti sono cariatidi –come si definisce Mastroianni- in mezzo ai ruderi, tenute in vita da omelette flambè, salmone affumicato, supplì. “Di chi è la colpa? Della società opulente”. E cosa c’è di più corrotto, di più decadente, di una tavola imbandita di piatti che non ci appartengono? In fondo, questa era la fame gli anni ’80, fame di cose senza storia, senza sapore, senza pensiero, senza responsabilità. Pennette ubriache di vodka, valanghe di panna a nascondere qualsiasi ingrediente riconoscibile, bollicine fino a strozzarsi. E chissà, forse Scola aveva già capito che è proprio a questo che serviva (e temo serva ancora) il rito dell’aperitivo in terrazza: a tenerci in vita, artificialmente.

 

Vintage zombie-food parade

anni80

Personalmente, immagino gli anni ‘80 come un triangolo mistico di cattivo gusto imperniato su spalline, Drive-in e paninari, per cui fatico a empatizzare con gli attuali cinquantenni a cui luccicano gli occhi quando ascoltano gli Spandau Ballet. In ogni caso, una insana curiosità per tutto ciò che è orrorifico mi ha portato a stilare una specie di classifica delle colpe gastronomiche degli eighties, per cui se siete abbastanza sadici da voler giocare a riprodurli tirate fuori una tovaglia rossa coi lustrini e sbizzarritevi.

10. Fettuccine salsiccia e funghi. Antesignane di qualsiasi boscaiola contemporanea, di quelle che i boschi non li hanno visti mai nemmeno nelle immagini del packaging

9. Profitterol. Per qualche mistero cosmico non è mai fresco ed esiste solo in due varianti: cioccolato e panna o limone. In ogni caso, il trionfo dell’industria chimica

8. Filetto al pepe verde. Con cremina alla panna (avevate dubbi?), da cuocere rigorosamente sul fornello a gas per il flambè, in caso non fosse chiaro che show must go on

7. Cocktail di gamberi. Costruito secondo architetture avveniristiche, con i poveri gamberi incastrati in posizioni che manco il Kamasutra e annessa immancabile salsa rosa (che no, non è l’equivalente di ketchup e maionese mescolati)

6. Vitello tonnato. Ridotto da classico piemontese très chic a caposaldo della grande famiglia popolana “mari e monti”

5. Tortellini panna, prosciutto e piselli. Credo l’allitterazione renda già l’idea

4. Pennette alla vodka. Ovvero, macabra soluzione per dare fondo alla vodka di pessima qualità e incentivare il consumo delle pennette e della panna, due tra le invenzioni più dannose dopo la bomba atomica e la tv via cavo

3. Banana split. #foodporn

2. Risotto alle fragole. Perché????

1. Tartine. Macrocategoria di delitti gastronomici che comprende anche: le uova sode ripiene di se stesse, pane bianco industriale spalmato di discutibili salse tartare in barattolo, caviale insapore, olive ripiene di plastica rossa spacciata per peperone, salmone affumicato già untuoso di per sé peggiorato da ricciolo di burro, fette di salame sudate su maionese da tubetto e, a coronare il tutto, abuso patologico degli stuzzicadenti.

tartineCioè, vi prego. No.

 

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