Midnight in Paris, di Woody Allen

Midnight in Paris, di Woody Allen

Esistono periodi storici nei quali, per una congiuntura astrale o dei fatti contingenti, la genialità si coagula in un solo luogo, come si fosse data appuntamento, convogliando lì gran parte degli esponenti del talento dell’epoca. Sicuramente questo doveva essere il primo pensiero di chi ha avuto la fortuna di avere a che fare con la corte dei miracoli che si raccolse intorno alla casa parigina della poetessa e mecenate Gertrude Stein nei primi decenni del novecento. Immaginare una quantità così incredibile di artisti, scrittori, poeti, provenienti da tutte le parti d’Europa e non solo, concentrata in un luogo solo è sconcertante, rileggendo a posteriori. Come doveva essere, invece, entrare in 27 rue de Fleurus durante i decenni che intercorsero fra le due guerre, apice dello splendore di un’epoca?

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È una sensazione di meraviglia e soprattutto di smarrimento quella che il regista Woody Allen fa provare al suo personaggio Gil Pender, messo di fronte ad una simile esperienza. In Midnight in Paris, infatti, sicuramente il più riuscito film europeo del regista newyorkese, un disorientato Owen Wilson è spedito nelle notti della Parigi anni venti, in mezzo al rutilante mondo degli artisti che le frequentavano. Gil è uno sceneggiatore di Hollywood con la passione per la letteratura e il sogno romantico di diventare uno scrittore vero. Appassionato distrattamente sognatore, rappresenta al meglio la versione edulcorata delle nevrosi e delle paure che Allen, autobiograficamente, mette nei suoi personaggi più classici: non può non ricordare, anche per aspirazioni e mestiere, il protagonista di Manhattan. Il regista lascia le stesse paure e ambizioni, privandolo di molti conflitti interiori, o adattando questi all’ambiente. Così come Woody Allen era il prodotto di New York, Owen Wilson diventa il prodotto di Parigi: ne acquisisce i colori, la levità, la passione per la pioggia e le passeggiate notturne, in un’operazione di totale riconoscimento del personaggio nella città, pur sempre vista dall’occhio da turista romantico del regista americano. Allen infatti aggiunge tenerezza e toglie aderenza alla realtà, realizzando un film sognante sui sogni, un manifesto di ciò che Parigi rappresenta nella mente di tutti gli avidi lettori del mondo, non un vero ritratto della città. In questo il film assume la sua autonomia da Manhattan: si passa dalla descrizione accurata di una città e di un modo di viverla, ad un resoconto fantasioso di come Parigi appare nella nostra mente, una città fatta per innamorarsi, creare capolavori e meditare nelle lunghe passeggiate. Entrambi i film sono dichiarazioni d’amore esplicite, come riecheggiano le speculari sequenze iniziali, ma con la differenza che intercorre fra il giudizio verso la città in cui si nasce e vive (giustamente anche criticata) e la città sognata, vista sempre con l’occhio trasognato del turista.

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Il protagonista subisce la stessa mutazione della città (protagonista alla pari) nei due film. Owen Wilson ricorda Woody Allen nelle paure e nell’ansia che lo accompagnano, ma è reso più dolce, più sognatore di quanto potesse essere la nervosa figura protagonista di Manhattan. Le battute argute sulla sessualità, sulla politica e sugli ebrei lasciano lo spazio allo sguardo trasognato (e talvolta un po’ sopra le righe) di Wilson, alle sue mani ficcate in tasca mentre passeggia, all’abbandonarsi agli eventi senza troppe domande. Gil Pender si trova diviso fra una vita gestita dalla fidanzata, costellata di cene coi genitori e visite ai musei guidate da un petulante amico (una riuscitissima macchietta di Michael Sheen) e gli anni venti, a cui approda per magia durante la notte. In questo luogo oltre il tempo lo attendono i più grandi personaggi della letteratura e dell’arte del Novecento, da Hemingway a Dalì, da cui Gil imparerà molto su se stesso e sulla sua carriera di scrittore. Tanto da prendere una decisione fondamentale per il suo futuro.

La festa mobile della Parigi del passato è disegnata da Allen con pennellate funzionali alla sua personale narrazione di maturazione del protagonista. I personaggi che affollano le notti da sogno di Gil sono resi con pochi tratti e poche caratteristiche, ma peculiari, cristallizzati in una loro caratteristica propria. Hemingway è rissoso, collerico, donnaiolo, dedito alla caccia e al pugilato, ma anche dispensatore di ottimi consigli; la coppia Fitzgerald è vittima delle stesse feste noiosamente divertenti e dello stesso amore totalizzante di cui Scott tratterà nel Grande Gatsby; Dalì è magistralmente reso da un Adrien Brody in stato di grazia: bastano uno sguardo, un’espressione, quella espressione che tutti riconosciamo, e poche battute (Rinoceronti!) per fare il ritratto al grande pittore surrealista. Forse la realtà era diversa, ma questo poco importa. La capacità di Allen di rappresentare gli uomini di genio dell’epoca come commensali seduti ad una tavola, intenti a bere vino e discutere di donne, come brilli partecipanti a feste chiassose, impegnati nelle attività quotidiane (bere, innamorarsi), restituisce umanità ad una memoria ammantata di mito e reverenza. Il regista compie la stessa operazione attuata da Roland Topor nelle sue Memorie di un vecchio cialtrone, dove assistiamo alla stessa rappresentazione ironica e divertita dei grandi miti del passato. Come nel libro di Topor, al centro della fiesta troviamo Gil, che da spaventato ammiratore assumerà il ruolo di figura patafisica, tanto da suggerire a Buñuel l’idea centrale de L’angelo sterminatore. Woody Allen mette in scena la sua personale memoria storica, con nostalgico affetto verso le personalità che hanno influenzato il suo pensiero e le sue nevrosi personali (basti pensare alla disquisizione sulla paura della morte tenuta da Gil con Hemingway, che fa eco a tanti film di Allen, come ad esempio Stardust Memories). Anche il regista rimane con gli occhi sgranati davanti ai Fitzgerald, a Hemingway e a Dalì e noi con lui, vinti da questo viaggio straniante che ci ricorda quanto è bello il passato. E quanto questa bellezza sia legata al fatto che è passato e non presente.

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La vita da sogno di Gil si svolge fra due poli femminili, incarnati dall’amore per Adriane (una sempre impeccabile Marion Cotillard) e dalla volontà di emergere come scrittore, che trova una guida in Gertrude Stein (l’irresistibile Kathy Bates). Proprio l’austera Stein e la sua casa-atelier rappresentano appieno il gusto di un’epoca intera. Poetessa, scrittrice, mecenate, diede ospitalità e sostegno a tutti gli artisti e letterati usciti dalla Grande Guerra. Questa generazione perduta (termine da lei stesso coniato) per anni ruoterà intorno alla sua figura, capace di dare consigli su stile, letteratura e arte e di assorbire tutte le ansie di una generazione che si è confrontata con una guerra, sulla soglia di una nuova tragedia mondiale, ma che ha trovato nei venti anni che intercorrono fra i due conflittiil vertice della propria arte e della propria creatività. Alla fine gli anni venti sono stati questo, per l’Europa: lontani dal bigotto proibizionismo americano, sono stati anni di festa mobile, di euforia, per essere scampati ad una guerra; con la consapevolezza di avere pochi anni per spassarsela, prima che la Storia tornasse a chiedere il suo conto. E la voglia conseguente di godersi la vita fino all’ultimo respiro. Le angosce del Novecento erano state momentaneamente messe da parte, pronte a riemergere alla prima occasione. Non a caso, la maggior parte delle figure letterario-artistiche messe in scena da Allen avrà un ruolo cruciale nella risposta artistica alla seconda guerra mondiale (Picasso, Hemingway, Bunuel…) e degli anni a venire. Saranno proprio questi artisti a mettere per iscritto o su tele le inquietudini di un secolo intero, alcuni di loro fino a morirne. La guerra, la necessità di affermazione, le festose quanto false apparenze, la disfatta tragicomica della borghesia, la fuga nel reame del sogno. Tutte le ansie del ‘900, del secolo più difficile e complesso, sono sopite sotto le braci di una sigaretta fumata da un bocchino di avorio, sotto le bottiglie stappate e scolate in una festa a base di jazz. Ci sono, solo nascoste. Per ora, però, non badiamoci. Bisogna ballare e non pensare alla morte.

Alessandro Pigoni

 

Titolo: Midnight in Paris
Anno: 2011
Regia: Woody Allen
Interpreti: Owen Wilson, Marion Cotillard, Kathy Bates, Tom Hiddleston, Michael Sheen, Carla Bruni, Léa Seydoux, Rachel McAdams

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3 COMMENTS

  1. […] divenne mentore di un’intera generazione. Ve lo ricordate lo sguardo attonito di Owen Wilson in Midnight in Paris quando Woody Allen lo fa volare indietro nel tempo, al numero 27 di rue de Fleurus? Ecco. […]

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