“JÓN” di Ófeigur Sigurðsson | Un pastore, l’inverno islandese e un vulcano...

“JÓN” di Ófeigur Sigurðsson | Un pastore, l’inverno islandese e un vulcano che erutta

Islanda (fonte: Pixabay)

L’Islanda è uno dei luoghi più mitici e mitizzati degli ultimi decenni: in parte per i suoi paesaggi selvaggi e desolati, che ci portano alla mente luoghi che abbiamo solo potuto immaginare, in parte per le eruzioni vulcaniche, dai soffi dei geyser a quelle mastodontiche in grado di bloccare il traffico aereo europeo per giorni, che sembrano manifestazioni concrete di un pianeta che freme.

Sono elementi che contribuiscono a darle un fascino primordiale, come quello che provavano i Greci immaginando la terra leggendaria d’Iperborea, posta ai confini settentrionali del mondo. Noi, parte di un pubblico che vive in luoghi dove la natura lascia spazio all’urbano, siamo profondamente affascinati da ciò che proviene da un’isola che ci sembra tanto remota, che sia un brano con le parole incomprensibili ma ammalianti dei Sigur Rós o un libro di poesia scaldica, di fiabe o di narrativa contemporanea.

La casa editrice Safarà ha recentemente pubblicato un libro che riesce a soddisfare questo anelito verso un’Islanda più immaginata che reale, posta sta sul limitare di ciò che esiste, e che si sporge verso mondi altri, ancestrali.

JÓN” di Ófeigur Sigurðsson (il cui titolo completo è “JÓN & le missive che scrisse alla moglie incinta mentre svernava in una grotta & preparava il di lei avvento & dei nuovi tempi”) è un romanzo epistolare ispirato alle lettere inviate da un pastore e medico islandese vissuto nel ‘700 a sua moglie Þorunn, incinta. Lei è bloccata nel nord dell’Islanda, da dove Jón è fuggito poiché ingiustamente accusato di aver ucciso il precedente marito di Þorunn, lui è nel sud insieme al fratello a trascorrere il rigido inverno tra il 1755 e il 1756 al riparo in una grotta.

Jón Steingrímsson è un personaggio celebre in Islanda, chiamato Pastore del Fuoco perché -secondo una leggenda- nel 1783 fermò una lingua di lava che stava minacciando una chiesa celebrandovi una messa all’interno. A lui viene riconosciuto il merito di aver curato molti infermi girovagando per l’Islanda in qualità di medico, somministrando pozioni, applicando unguenti, importando conoscenze mediche che in quegli anni non avevano ancora raggiunto le propaggini settentrionali dell’Europa in pieno fermento Illuminista.

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Ófeigur Sigurðsson decide di mostrare solo in sporadici momenti di tenerezza l’amore genuino (una rarità all’epoca) di Jón per Þorunn, si concentra invece sullo sguardo curioso e immaginifico del giovane Pastore del Fuoco verso la realtà che lo circonda: dai testi di teologia alla scienza, dai lavori artigianali del fratello all’osservazione attenta della natura sterminata che lo circonda.

Proprio descrivendo la desolazione dell’inverno islandese e lo scabro paesaggio del sandur -una pianura alluvionale coperta dalla neve mista alla cenere vulcanica- Ófeigur Sigurðsson ritrae un’Islanda fatta di precisi dettagli cromatici: il nero della cenere, il bianco della neve, il rosso della lava, il blu dei fuochi fatui sulla palude, creando un’atmosfera che ricorda il gormenghastly di Mervyn Peake.

Il Pastore del Fuoco è impaurito e ammaliato dalla potenza della natura, che ai suoi occhi è diretta manifestazione del divino. Nello specifico è il vulcano Katla a occupare gran parte dei suoi pensieri e delle sue lettere per la moglie; con il Katla ha un rapporto ossessivo che somiglia a quello di Achab con la balena bianca: lo personifica, lo vuole controllare, misurare, ne è affascinato eppure è un latore di morte e di devastazione. Descrivendo le portentose eruzioni del Katla e i fenomeni straordinari ad esso collegati (terremoti, tempeste di fulmini, fuochi di Sant’Elmo) la prosa di Ófeigur Sigurðsson svela la sua forma migliore moltiplicando le figure retoriche e avvicinandosi alla poesia (non è un caso che l’autore di Reykjavik in passato si sia impegnato soprattutto a rinnovare la poesia islandese con sette raccolte in versi.)

jon
Jon, Safarà, 2020

A percorrere questa terra desolata, in cui ogni elemento sembra imperversare con tutta la sua forza, vi sono sparuti e audaci girovaghi che compaiono ripetutamente nei resoconti di Jón: il sindaco Skùli, che secondo un calcolo di Jón dovrebbe essere ubriaco per quattro mesi l’anno, eppure politico di buon cuore che si fa portavoce dell’emancipazione degli islandesi dai danesi; il monaco bambino Jón Fagotto, un vagabondo che viene scambiato per un troll; il gigante buono Kristófer, che viaggia con il suo figlio neonato sulle spalle.  Tra tutti spiccano i due scienziati Bjarni (il physicus generale, un direttore sanitario) ed Eggert: due conoscitori di pressoché ogni scienza che “cercan questo, mappan quest’altro”, portando un baluginio di quell’Illuminismo che è già esploso nel resto d’Europa.

Jón è incantato dal lavoro dei due scienziati e usa il loro sapere per apprendere sempre più nozioni tecniche e conoscere nuovi strumenti che ai suoi occhi appaiono come oggetti magici e straordinari. Trivelle, barometri, termometri, orologi ci vengono descritti con l’occhio di un uomo che è ancora legato al medioevo, e Bjarni ed Eggert sulla pagina appaiono irrimediabilmente somiglianti alla carovana di zingari capeggiati da Melquìades di Cent’anni di solitudine e alle loro strampalate invenzioni. Due figure che per lo sguardo del narratore stanno tra la scienza e il mito, riassumibili in questo stralcio di testo: “Eggert e Bjarni rifulgevano d’un fuoco fatuo verdazzurro che percorreva i loro vestimenti e il corpo tanto che parevano una torcia umana ma non provavano alcun calore che derivasse da questo portento.”

Forse proprio in questo dualismo sta la chiave del romanzo: rappresentare un mondo ancora percorso da un respiro antico che si lascia ammaliare dalle prime propaggini della modernità, senza però abbandonare la magia delle leggende, il mistero della natura e un afflato divino che sta in ogni cosa.

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È interessante rendersi conto che tutta la vicenda viene raccontata in mesi in cui il Pastore del Fuoco e il fratello sono bloccati all’interno di una caverna: fuori c’è troppo freddo e la cenere prodotta dal Katla riempie gli occhi e le vie respiratorie uccidendo uomini e animali. Un isolamento che Jón utilizza per prendersi una pausa e riflettere su come il suo piccolo mondo sia fatto e sia cambiato, ma soprattutto per studiare e preparare la vita che lo attende a primavera, quando la sua Þorunn lo raggiungerà con il figlio nella loro nuova casa.  Di fatto, pensando alla nostra attuale situazione di reclusi, possiamo vedere la storia di Jón come un esempio su come continuare a vivere quando il mondo sembra spaccarsi, e come continuare a muoverci stando fermi.

Grazie al romanzo epistolare “Jón & le missive che scrisse alla moglie incinta mentre svernava in una grotta & preparava il di lei avvento & dei nuovi tempi” Ófeigur Sigurðsson ha vinto l’European Union Prize for Literature, un ottimo libro per viaggiare in mezzo all’emersione furente del caos primordiale della natura, costeggiando paesaggi ghiacciati e caliginosi di un’Islanda che forse si può trovare solo laddove la realtà si mischia alla fantasia.

 

titolo | JÓN & le missive che scrisse alla moglie incinta mentre svernava in una grotta & preparava il di lei avvento & dei nuovi tempi

autore | Ófeigur Sigurðsson

editore | Safarà

anno | 2020

 

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