Il cortometraggio indie di Dolce&Gabbana

Il cortometraggio indie di Dolce&Gabbana

La notizia è sulla bocca di tutti: Dolce&Gabbana, a seguito di un notevole scivololone con la comunità cinese (in pratica fanno dire ad una voce fuori campo “è troppo grosso per te?” ad una ragazza che prova a mangiare un cannolo siciliano con le bacchette), hanno pubblicato un video di scuse nei confronti di quello che è il primo mercato al mondo, per qualunque cosa (cinema compreso).

Il video è oltremodo ridicolo; tuttavia, potrebbe non essere del tutto casuale. Proviamo per un secondo ad immaginarlo come pura opera d’arte, magari di un regista indie idolatrato (più o meno a ragione) da critici e millenials.

L’inquadratura è perfettamente simmetrica e tutto il video scorre come un unico piano sequenza. Anche la posizione dei due protagonisti nel quadro così creato è tutt’altro che casuale: le loro teste riflettenti si pongono circa a un terzo dell’altezza del video, così come in terzi è diviso lo schermo in direzione orizzontale, con la limitante dei corpi dei due come linee immaginarie. Il video, cioè, segue perfettamente le regole della simmetria ed anche della proporzione aurea tanto care alla pittura classica ed a registi di grido quali Wes Anderson.

Proporzioni importanti
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Un discorso analogo si può fare per quanto riguarda lo sfondo e l’arredamento. Così come accade in diversi film considerati indie, la parete sullo sfondo rimanda alla dispersione dell’io del protagonista. Il protagonista viene in qualche maniera risucchaito, assimilato, dalla parete, perdendo così ogni sua individualità. Nel cinema questo artificio rimanda quasi sempre ad una difficoltà nel vivere la vita secondo gli schemi preimposti, ad una forma di “inettitudine” (mi si conceda il termine dispregiativo, ma usato come veniva usato nella letteratura di fine ‘800) che nasce dal paragone con la vita degli altri, senza dubbio di maggior successo. Rimanda, inoltre, ad un mondo onirico e irreale che vive solo nella testa del protagonista, (auto)esclusosi dalla vita “mondana”.

La scelta dei due stilisti (e del loro regista) è in questo audace. Una parete che risucchia ed annulla, a cui fanno da contraltare due semplici magliette nere. Di nuovo siamo di fronte ad un annullamento della personalità, ad una fusione programmatica fra i due corpi che divengono una sola entità e così si staccano dallo sfondo fagocitante, facendo quel passo che Zach Braff riesce a fare dopo un intero film.

Similitudini.
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La recitazione è volutamente brechtiana: due attori presi dalla strada che leggono con voce monocorde un cartello scritto da altri, senza rispettare in alcuna maniera le pause recitative e sovrapponendosi con l’altro. La sceneggiatura culmina nelle scuse in cinese, pronunciate malissimo (Ho seguito 6 mesi di corso di cinesi e almeno “mi scusi” ricordo come si pronuncia, NdS) ed è costellata di una serie di riferimenti ironici alla cultura massificata che vive di stereotipi (“…a tutti i cinesi del mondo, che sono tanti…“). In certi momenti il gobbo sembra essere addirittura alla destra dello schermo, dal momento che Dolce muove lo sguardo sempre in quella direzione. Che senso ha mettere il gobbo in una posizione così scomoda?

Tutto partecipa nel convogliare un profondissimo senso di disagio esistenziale. Molti hanno paragonato il video a quelli inviati dai prigionieri di guerra o del terrorismo. L’inquietudine trasmessa qui è molto più violenta, perché non esiste alcun tipo di costrizione fisica. La vita stessa (lo sfondo) ha “rapito” i due protagonisti e li costringe ora a dire al mondo che tutto va bene, quando invece vorrebbero urlare il loro terrore nei confronti della vita stessa.

La difficoltà del vivere

Nel mondo che vorrei, questo video sarebbe stato girato col preciso intento di veicolare un messaggio di questo tipo, come una ridicola messinscena o come il cortrometraggio di un regista indie.

Temo tuttavia non sia andata esattamente così e che tutto ciò che abbiamo visto sia frutto di casualità e, ancor di più, di ridicola dabbenaggine. Eppure ancora questo video qualcosa potrebbe dirci, io credo. Perché sottende a qualcosa di estremamente indicativo della nostra epoca (non per niente il paragone coi registi indie ed i millenials). La responsabilità delle azioni è una messinscena fatta a bella posta per raggiungere un obiettivo (il mercato più importante del mondo, per esempio). Nessuno si ritiene responsabile di ciò che accade e quando ci vengono fatti notare i nostri errori, reagiamo in maniera aggressiva (sì, sembrano a tratti aggressivi i due stilisti), perché non riteniamo di poter commettere errori. 

Non si tratta, io credo, di un problema solo generazionale, ma estremamente diffuso (a partire dalle cariche politiche che accusano predecessori, parenti, Europa, miocuggino). E che dovrebbe farci riflettere su quali strade possiamo imboccare per cambiare le cose.

Per quanto riguarda D&G, non perdo la speranza che un giorno o l’altro Wes Anderson reclami la paternità di questo clamoroso video.

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