Ti ka vjen: tu da dove vieni? Arbëria di Francesca Olivieri

Ti ka vjen: tu da dove vieni? Arbëria di Francesca Olivieri

Una scena di Arbëria, di Francesca Olivieri

Attualmente vivi e lavori nella tua città natia?
Da quanto tempo non torni a casa?
Ogni quanto vi fai ritorno?

Se la tua risposta alla prima domanda è “no”, alla seconda è “da Natale” (per i più fortunati, e non tenendo conto della pandemia) e alla terza “alle ricorrenze comandate”, allora rientri nel profilo A di emigrato.

Emigrato – riporta il dizionario Treccani – “colui che è espatriato, specialmente per ragioni di lavoro”. “A” di abitazione, abbandono, allontanamento, avventura, aspirazione, abbraccio. “A” di Aida (non quella di Verdi), “A” di Arbëria (che non ha nulla a che vedere con la parola albero nonostante il gioco di assonanza). Aida sono io, Aida sei tu. Ognuno di noi è Aida, così come ognuno di noi ha la propria Arbëria.

Non riuscite a capirmi, vero? Nemmeno la me di sei anni fa aveva capito. Quando qualcuno presentandosi mi disse “vengo da Vaccarizzo Albanese”, subito risposi – iniziando la mia collezione di figuracce – “ah! Sei albanese!”. “No, calabrese come te!” – colpita e affondata.

Con enorme imbarazzo e vergogna, corro a googlare “Vaccarizzo Albanese” e mi si apre un (altro) mondo. Scopro infatti che questo piccolo borgo esiste davvero in Calabria, in provincia di Cosenza – a soli 183 km dalla mia città (destino complice) – sul versante orientale della Sila greca. La storia della sua fondazione e quella degli altri Comuni limitrofi, deve essere raccontata, conosciuta e riconosciuta, e merita l’incipit per antonomasia del “c’era una volta..”

C’era una volta un principe albanese e re di Epiro, Giorgio Castriota, detto Skanderberg, abile e valoroso condottiero che riunì i principati d’ Albania animando la resistenza degli albanesi e bloccando per due decenni l’avanzata dell’Impero ottomano verso l’Europa. Ciò gli valse l’appellativo di “atleta di Cristo e difensore della fede” da parte di papa Calisto III, oltre quello di eroe nazionale del popolo albanese. A lui l’onore ed il merito di aver condotto in salvo gli abitanti del Paese delle aquile presso le vicine terre di Sicilia, Basilicata e Calabria dove, nel 1470 circa, fondarono alcuni casali- tuttora presenti- quali San Demetrio Corone, San Giorgio Albanese, San Cosmo, Santa Sofia d’Epiro, Spezzano Albanese e Vaccarizzo Albanese.

La forza di queste comunità si regge sulla memoria, memoria che è tramandata dalle donne arbëreshë, insieme alla lingua, usi, costumi, tradizioni e cultura”. È quanto dichiara Francesca Olivieri – nata in Piemonte ma originaria di un paesino arbëreshë, San Costantino Albanese, al confine tra la Calabria e la Basilicata, immerso nel cuore verde del Pollino – regista del film Arbëria.

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Arbëria, opera prima nonché primo film in lingua arbëreshë della storia. Arbëria, storia di un ritorno alle origini, storia di una donna, Aida, che fa ritorno nel proprio paese natio. Aida, nome non casuale, adattamento arabo di Ayda – “colei che ritorna”, “visitatrice” -, storia della stessa regista Francesca, storia di Caterina Misasi (attrice protagonista, anche lei di origini arbëreshë). Storia di quel giovane che va a cercare fortuna nella grande città abbandonando il paesello con la promessa di farvi ritorno soltanto in casi di estrema necessità (un funerale, in questo caso).

Guardare questo film è un po’ come guardarmi in uno specchio rotto: riesco a dare voce ai lunghi silenzi di Aida, a sentirne i pensieri e a farli miei, comprendendo la sua inquietudine e quel senso di smarrimento ed estraniamento che mi assale tutte le volte in cui faccio ritorno a casa. Anche io, come Aida, mi sento una visitatrice: mi approccio ai luoghi e alle persone che mi hanno vista crescere con un atteggiamento che sa di affetto e diffidenza insieme, con occhi furtivi e curiosi come di chi scopre tutto per la prima volta, e mi taccio.




Aida incarna tutti coloro i quali hanno cercato di allontanarsi dalle proprie origini senza però volersene davvero staccare definitivamente mettendo in scena la storia di un amore complicato con le nostre radici, quel conflitto di sentimenti contrastanti di un rapporto duale e dicotomico intessuto con il nostro paese, l’eterna sfida tra rifiuto e pregiudizio versus riscoperta e orgoglio per la propria terra madre.

Ad accentuare ulteriormente la profonda crisi d’identità vissuta dalla protagonista è il confronto con la nipote Lucia, ventenne audace e fiera delle proprie origini, la cui perseveranza e tenacia fungono da pungolo per Aida. Lucia incarna la possibilità: possibilità di essere una donna indipendente seppur prossima alle nozze, possibilità di essere una donna lavoratrice, seppur nell’amara terra di Calabria, possibilità di essere libera, ché la libertà è una scelta, non una fuga, una conquista e non una ricerca, libertà è avere il coraggio di restare e resistere, nonostante. “Libertà è partecipazione”.

“Per me il paese vuol dire non essere mai soli” – confida Lucia – “sapere che nella gente, nelle piante, nella terra, c’è qualcosa di tuo che anche quando non ci sei resta ad aspettarti. Tu lo senti tutto questo, Aida?”

E TU, lo senti?

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Un'immagine dal film Arbëria di Francesca Olivieri

Arbëria si fa carico del ricordo dell’intera comunità arbëreshë, la cui memoria rischia di scomparire sotto il peso sempre più ingombrante della globalizzazione, facendoci accostare non solo alla sonorità di una lingua antica in uso ancora oggi, frutto della stratificazione di cicli successivi di ondate migratorie, ma ci offre anche, senza pedanteria, la spiegazione di quelli che i sussidiari scolastici oramai impolverati definivano “usi e costumi di un popolo”. La preparazione della festa del Santo patrono e del rito nuziale di Lucia sono dipinti con un’attenzione etnologicamente e filologicamente aderente e attenta anche ai minimi particolari.

Non è possibile raccontare la storia degli arbëreshë senza fare riferimento all’ultimo santo bizantino della Calabria, San Francesco da Paola, la cui nascita è profondamente e fatalmente legata all’insediamento di queste comunità, in quanto si colloca in un periodo storico denso di cambiamenti: la caduta di Costantinopoli e la diaspora perenne e infinita di questo popolo che trova rifugio nelle verdi e ridenti colline della pre-Sila greca.

All’azzurro cristallino del mar Ionio, al verde smeraldo della selva silana e al rosso vermiglio del peperoncino, le nuove genti aggiungono l’oro, l’oro delle icone bizantine, dei costumi regali, della ricchezza del religioso credo greco-bizantino. Ricordo che la prima volta che misi piede nella chiesa di Santa Maria di Costantinopoli di Vaccarizzo Albanese fui a un passo dallo sperimentare, nuovamente, la sindrome di Stendhal: fui investita difatti da un caleidoscopio di colori intensi, vivi e vividi, brillanti, accesi e luminosi, molto lontani dai toni cupi e freddi delle classiche chiese a cui ero abituata.

L’architettura della parrocchiale bizantina rispecchia del tutto la sua teologia con l’iconostasi (struttura divisoria tra l’altare e l’assemblea adorna di immagini sacre, ndr) che, più che fungere da muro, sembra avvolgere i fedeli in un abbraccio – che è quello della fede – rendendoli partecipi di una visione – che è quella di Dio. Entrando in questo mosaico di tesori si ha proprio la sensazione di trovarsi ad una mostra di Gauguin o invitati al ballo del Gattopardo, tanti sono i giochi di luce e colori e odori e l’uso esasperato dell’oro. Oro, oro ovunque. Oro contro l’horror vacui.

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Chiesa di Santa Maria di Costantinopoli di Vaccarizzo Albanese

L’oro è il vessillo di questa etnia poiché è l’oro dei loro rigogliosi uliveti secolari che dimorano queste valli, l’oro dei monili che impreziosiscono la bellezza delle donne arbëreshë, l’oro è il colore per eccellenza dei loro abiti. Oro quale simbolo identitario del complessivo heritage arbëreshë, scrigno prezioso di questo Occidente orientale ostinatamente difeso e custodito dalla sua gente.

Aida comincia a sentirsi pian piano partecipe di questa ricchezza grazie anche al suo mestiere di sarta, finemente appreso sin da bambina e tramandato di generazione in generazione dalle sapienti mani di antenate esperte nella realizzazione di vere e proprie opere d’arte, come l’abito da sposa che si appresta a cucire per Lucia. Fino agli anni ’50 – ma anche tutt’oggi – l’abito di gala era parte integrante della pattuizione matrimoniale, la sposa lo portava in dote ed anche durante la vita quotidiana.

Il film della Olivieri dedica ampio spazio alla celebrazione del sacro rito attraverso inquadrature che, con dovizia di particolari, sembrano dei veri pinakes: la Coha – l’abito da sposa – è caratteristicamente ricco e di fattura molto elaborata, dove l’oro ritorna ancora sia nell’orlo sul fondo della lunga gonna ad indicare le possibilità economiche della famiglia, sia nel velo prezioso e raffinato, sia nella tipica acconciatura a chignon realizzata con seta trapuntata e ricoperta dalla Keza, accessorio compreso nella mise nuziale.

Lucia è bellissima nel suo abito da sposa: “je e bukur e veshur nusie, se zamra ime je ti vete” (“quanto sei bella vestita da sposa, il mio cuore sei tu soltanto”). Questo è uno dei tanti versi folkloristici estrapolati da un famoso canto arbëreshë che ricorre anche nelle scene finali del film, accompagnato dalla vallja, tipica danza popolare in costume, non una variante della classica tarantella calabrese (attenzione!) ma una ridda dal ritmo sostenuto e fiero, proprio come il suo popolo.

Ci sarebbe tanto altro ancora da raccontare riguardo a questa minoranza etno-linguistica albanese stanziata nel sud Italia, il cui patrimonio culturale merita di essere preservato e conosciuto da tutti noi quale fonte di ricchezza inestimabile che apporta valore e prestigio al nostro bel Paese, ma la Storia di un popolo non può – né deve – trovare giustizia in queste poche righe.

Mi auguro soltanto che, al termine di questa lettura, non saranno pochi coloro i quali vorranno saperne di più degli Arbëreshë. Se io, con il mio umile e minimo contributo avrò potuto in qualche modo accendere la curiosità di te lettore, stuzzicandoti ad indagare i legami forti e l’eredità culturale di questa realtà sopravvissuta al tempo e nel tempo, vincendo l’oblio dell’ignoranza, allora questo, per me, sarà già un bel risultato.

“Gocce di sangue, gocce di sudore, gocce di memoria, di lacrime. La nostalgia è una lacrima di vita che accompagna il cammino incerto e la sorte di un popolo ramingo …”

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Un diadema arbëreshë

Titolo | Arbëria
Regista | Francesca Olivieri
Anno | 2019
Durata | 80′


Per saperne di più:


Maria Cristina Clericò

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