Pantelleria, la figlia del vento

Pantelleria, la figlia del vento

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Un tramonto pantesco dalla terrazza del bar Shuruhq

La chiamano la “figlia del vento”, Pantelleria. Spazzata dal maestrale, inumidita dallo scirocco. Arsa dal sole. Corrosa dal sale. Eppure, nonostante la furia degli elementi che si abbatte su di lei e la sconvolge, Pantelleria è anche la calma. E’ il rallentare.

Neanche ottomila abitanti fissi. Un’ottantina di chilometri quadrati di estensione nel mezzo del Mediterraneo, a poco più di 60 chilometri dalla Tunisia. Buttata lì, esplosa dalle acque blu cobalto.
Nasce vulcanica: un accumulo di materiale lavico ed eruzioni. Pietra nera e vapore di condensa all’impatto con l’acqua: devono essere stati così i suoi primi vagiti. L’adolescenza, poi, un contrasto continuo di una natura in lotta con se stessa, fino a che la terra riuscì a depositarsi e dare le prime note di verde.

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Non è cambiata molto, in queste migliaia di anni. Non si è mai adattata a nessuno. E’ orgogliosa, dura. E’ l’uomo che si deve adeguare all’Isola. E l’Isola ricorda ogni inverno, all’uomo, chi è che comanda. Così l’uomo che la abita ne prende la forma. Il pantesco è camaleontico. Cresce a immagine e somiglianza di questa roccia dura, coriaceo ma comprensivo.

Nel segmento di tempo in cui il turista lo incrocia l’estate, sembra così lontana la violenza dell’inverno, il vento che strappa i cannizzi delle case, il mare che corrode i serramenti e le carrozzerie, che cancella i colori delle cose, per riportarli nelle profondità dove la luce non arriva e tutto si uniforma in un apparente bianco e nero.




Pantelleria è arrivata a sorpresa, nel Mediterraneo, e mai il mare ne ha accettato la presenza. Così, come una gigantesca portaerei, le sue pareti cadono a strapiombo in fondali abissali dall’acqua trasparente. Dimenticatevi la spiaggia. A Pantelleria semplicemente non esiste. Parte dell’esperienza culturale dell’isola è anche provare cosa significhi crescere in tanta durezza. Per ammirarla davvero bisogna fare come il mare che se l’è trovata buttata addosso, e guardarla da lì. C’è un gruppo di professionisti straordinari sull’isola: si chiamano Green Divers.

Sono le persone perfette per scoprirla. Per uscire in barca, girarla, capire dove immergersi per saggiare quei fenomeni di vulcaneismo secondario che ancora esistono, cercare nei suoi abissi i polpi, i tonni, i barracuda, le stelle marine. Pantelleria va vista anche da sotto. Vi insegneranno loro come fare, se non vi siete mai immersi. Rientrando in barca nelle notti d’estate, poi, quando fa buio, fermatevi ad ammirare la scia di schiuma. Vedrete delle piccole sfere illuminate. E’ la bioluminescenza. Il plancton che reagisce alla sollecitazione della superficie.

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In barca con i Green Divers.

A terra, poi, è il vento a decidere dove scendere in mare. Così, se soffia il maestrale, la calma si trova a Martingana e – se non è proprio così forte – a Balata dei Turchi. Camminando sulle pietre laviche, con quel cozzare dall’eco metallica, invece, si può raggiungere il laghetto delle Ondine, in località Punta Spadillo.

E’ un piccolo lago di acqua salata che il mare alimenta nelle mareggiate. Un altro fenomeno simile, invece, si trova a Punta Fram, scendendo dall’accesso accanto all’Hotel Aurum. Nel porticciolo di Gadir, invece, ci sono delle vasche con sorgenti di acqua calda vicine al mare. Sono ancora lì così, come furono costruite secoli fa dai pescatori. Capita spesso, poi, nuotando nelle acqua dell’isola, di sentire improvvisamente il mare scaldarsi, come a Nikà. Situata nella parte meridionale dell’isola, da sotto il costone roccioso sgorgano sorgenti di acque termali fino a 70 gradi.

Il vulcanesimo secondario, poi, si mostra in tutto il suo splendore nei soffioni delle Favare e nelle acque limacciose del Laghetto di Venere. Qui non bisogna fermarsi dove arriva la stradina. Va costeggiato a piedi fino all’estremità opposta per trovare il fango termale più puro con cui cospargersi, prima di sciacquarsi nelle acque tiepide, o farsi massaggiare dalle ribollenti vasche naturali della riva.

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Il laghetto di Venere

Tutto, di questa terra dura, è frutto di un percorso sofferto. Si sente nel profumo dei vini, che è quello dell’uva che è stata battuta dal sole e dal vento. E’ la calma apparente del tempo fruttato. La vite, qui, come l’uomo, si adatta. Nel 2014, addirittura, l’UNESCO ha iscritto la “Pratica agricola tradizionale di coltivare la ‘vite ad alberello’ della comunità di Pantelleria” nella lista dei “Patrimoni orali e immateriali dell’umanità”. Così le uve di zibibbo, da generazioni, crescono abbarbicate e protette. Dimenticate i filari, qui il vino è un cespuglio. Lo confondi col gelso che cresce tra le rocce ai bordi delle strade e a luglio si colora di more di porpora.

E così, basso, a raso terra, sotto il vento che sferza, cresce anche l’ulivo che trasmette la forza e la sofferenza del sole in olive dal gusto intenso. I pomodori a ciliegina srotolano i loro rami sul suolo. Le zucche pantesche vengono abbandonate a maturare sulla terra nera, mentre la pianta che le ha generate si secca in uno svolazzare di paglia.

Qua e là, invece, come meduse verdi, esplodono le piante dei capperi. Raccolti da maggio a settembre, quando il fiore è ancora chiuso. Poi la salamoia e il sale, strappato al mare, per rimuoverne il gusto amaro.

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Le piante di capperi.

Tutti questi sforzi che la natura fa sull’isola, colorano la tavola dei panteschi, influenzata dalla sua vicinanza e dalla sua storia spesso vicina al mondo arabo. Oltre alla famosa “insalata pantesca”, infatti, c’è il Cous Cous che fonde la terra col mare: pesce locale, verdure fritte e un sugo ricavato dalla cottura del pesce per inumidire il piatto.

La pasta è spesso condita col un pesto chiamato “Ammogghio” (aglio, pomodori, origano, mandorle, olio e sale) oppure, quando è fresca, è stesa a formare dei ravioli di ricotta o tumma (un primo sale fresco locale) e menta fresca. Il pane pantesco è sfumato col finocchietto che invade le nicchie tra le rocce e cosparso di sesamo. I dessert, invece, hanno il sapore prepotentemente siculo della mandorla e della ricotta, così è il “bacio pantesco”: una sorta di frittella che ricorda la pasta delle chiacchiere di Carnevale farcita con ricotta dolce. Il vino che innaffia i pasti è quello di zibibbo, a chiuderli è il passito dai toni dolci e fruttati.

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Pantelleria devi arrivare a scoprirla sapendo che sei tu a doverti adattare a lei, e solo allora lei si mostrerà in tutta la sua bellezza.
Perché l’Isola decide. L’Isola comanda. L’Isola dà e toglie.
Pantelleria è un corso accelerato di accettazione dell’imprevisto.
Il ritorno è una promessa che viene strappata dopo essersi reciprocamente studiati.
La ritrosia di questa terra non è altro che una continua danza di corteggiamento.

 


Dove mangiare:

  • Il Principe e il Pirata. Location incredibile anche se non facilmente accessibile. Cucina di mare eccelsa. Da fare.
  • La Nicchia. Prenotare un tavolo nella terrazza col tipico giardino arabo. Cucina ottima di mare e di terra. Un po’ caro.
  • Panificio Marrone. una terrazza con vista mozzafiato a Scauri, tranci di economica e buonissima pizza tipica.
  • Shurhuq. uno stabilimento sui generis, arroccato sulle rocce. Aperitivo al tramonto con una selezione di assaggi locali. Il ristorante per la cena non l’abbiamo provato.
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Il dehors de il Principe e il Pirata. Sotto la balconata il mare.
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