IRA | La “lingua della necessità” di IOSONOUNCANE
“L’obiettivo principale del mio lavoro è provare a riflettere su una relazione spirituale con lo spazio. È come il “sentimento oceanico” di Freud, l’idea di sentirsi dissolti nell’energia di un paesaggio, attraverso un momento rivelatorio. È un’esperienza che cerco di offrire allo spettatore per il tramite della contemplazione. […] E un altro punto di partenza tipico, per me, è la riflessione sull’identità di un paesaggio, su come questo venga costruito su strati di Mito e Storia in sovrapposizione. Ecco una definizione interessante di paesaggio: strati di tempo condensati in un’immagine” (Lois Patiño, Filmcomment)
Che ci si concentri sul senso che a quell’oceanic feeling dava Romain Rolland – la sensazione di pura connessione al mondo esterno, di sentirsi tutt’uno con esso – o al modo in cui lo traduceva Sigmund Freud – un ricordo di quel momento dell’infanzia in cui non si è ancora sviluppata la coscienza del sé e della propria differenza dagli altri -, le parole del regista spagnolo Lois Patiño aderiscono come una seconda pelle al suo splendido Lua Vermella, presentato lo scorso anno alla Berlinale. Un film che prende le mosse proprio da questi concetti – mito, tempo, paesaggio – e la cui ambizione trova perfetta corrispondenza nel risultato finale.
Ambientato in un villaggio della Galizia, il lungometraggio – ottantacinque minuti che potrebbero essere condensati in un corto così come, altrettanto sensatamente, non avere mai fine – racconta della scomparsa in mare di un esperto sommozzatore e del lutto in cui la gente del luogo viene precipitata. Un lutto paralizzante: tutti i personaggi sono immobili sullo schermo; possiamo giusto udirne i pensieri – come fossimo gli angeli de Il Cielo Sopra Berlino – solo quando la camera stringe l’inquadratura da un paesaggio monumentale al dettaglio di un volto raggelato. E i loro pensieri parlano di fantasmi e di mostri (“l’oceano è una bestia che respira due volte al giorno”); di una mitologica luna rossa che rende vermiglio lo schermo; di tre streghe che, unici esseri umani in movimento, coprono con lenzuoli bianchi chi è rimasto bloccato in quel limbo indecifrabile.
Oltre alla qualità pittorica della fotografia – in ogni singola scena pare di zoomare sui particolari di un enorme dipinto, in una maniera che sarebbe piaciuta a Chris Marker oltre che a Tarkovskij – e alla straordinaria rappresentazione di una natura egualmente brutale e meravigliosa, è la qualità immersiva di Lua Vermella a renderlo una visione consigliata anche se non facile. A colpire, in particolare, è la totale assenza di distanza fra la forma scelta e le emozioni evocate, finissimo lavoro di cesello che conferisce un lato documentaristico a una storia che si regge in realtà sul respiro di millenni di misteri, miti e leggende, a dimostrazione della necessità di muoversi in direzione ostinata e contraria anche in tempi in cui non sembra previsto spazio per un’Arte che non sia letterale o ampiamente spiegata.
Sarà stata la singolare coincidenza temporale, ma in quelle voci spezzate dall’attesa – e isolate, ma capaci di costruire un racconto corale – mi è parso di cogliere più di un’assonanza con il nuovo album di Jacopo Incani, al secolo IOSONOUNCANE. Un ciclopico doppio, IRA, che di quella minacciosa luna rossa e dei suoi cicli potrebbe benissimo essere la trasposizione sonora. Per il fondersi costante di Storia e Mito, di sogno e veglia, di dentro e fuori, di oasi e miraggio; per la volontà di proporre una visione artistica ampia e complessa senza negarsi nulla ma senza mai nemmeno perdere di vista il baricentro dell’opera e la propria capacità di controllarla in ogni suo aspetto.
Ma guarda il pubblico: tutti quanti in piedi a battere le mani e cantare.
Cantano tutti, ballano tutti, ridono tutti.
Lo psicologo, le vallette, il meteorologo, il giornalista, i calciatori, il consigliere comunale.
Ballano tutti, cantano tutti, si passano il microfono di mano in mano.
E poi il trenino, oh, il trenino: come a capodanno no?
(IOSONOUNCANE, La Macarena su Roma)
È impossibile spiegare il senso d’attesa e di rivelazione che accompagna l’arrivo di IRA senza raccontare cosa abbia rappresentato l’ora e mezza scarsa di musica originale fin qui rilasciata a nome IOSONOUNCANE. Perché questo corpus discografico ancora assai esiguo – due soli album in proprio e poco altro – ha segnato l’avvento di una voce nuova, acida, sdegnosamente non allineata. Una voce disturbante per l’impeto con cui porta avanti un discorso artistico dagli evidenti intenti politici, basato sul linguaggio e sulla sua destrutturazione in un contesto socioculturale annichilente. “Un Paese di musichette mentre fuori c’è la morte”, diceva un personaggio di Boris prima che anche questo diventasse un altro meme di nessun valore da esibire nella propria bolla.
Una vecchia citazione buona per tutte le occasioni: su queste pagine era già venuta fuori qualche anno fa parlando di Maledette Rockstar dei Maisie, uno dei dischi più significativi degli anni Dieci; un’opera folle, provocatoria e respingente che, in due ore e mezza di una mostruosità anarco-pulp/art-rock/folk-prog, metteva alla berlina tre decenni di storia italiana. Abita stanze sonore completamente differenti La Macarena su Roma, abbagliante esordio di IOSONOUNCANE pubblicato da Trovarobato nel 2010: quarantasei minuti di parole mitragliate da una vocalità isterica, una chitarra acustica e una loop station. Ma, pure nell’approccio irony-free e decisamente DIY di Incani, non è difficile riconoscere una certa consonanza d’intenti tra il suo genio distruttore e quello di Alberto Scotti e Cinzia La Fauci.
Non è album che si possa ascoltare tutti i giorni, La Macarena, flusso di coscienza libero ma tutt’altro che randomico che nelle liriche – urlate, ben oltre l’orlo della crisi di nervi – mette insieme tormentoni estivi, titoli di giornali, formule da talk-show dentro cui far annegare tragedie italiane, pubbliche e private.
Senza retorica: i migranti morti e accatastati sulle spiagge diventano solo un pezzo della giornata-tipo dell’italiano medio sotto l’ombrellone, finalmente pronto a godersi di persona quello spettacolo di cui tanto si parla al telegiornale; la miseria di esistenze senza sbocchi passate al call center non lascia altra possibilità che assuefarsi al flusso continuo di bestialità televisive. La Macarena su Roma non descrive, non edulcora, non spiega come ci si debba sentire di fronte a tutto questo: vive i propri orrori da dentro la testa dei personaggi che mette in scena.
Spoglie le rive, il sole schiassa contro gli scogli
Fame rinasce fame nella pietra e muore
Senza ricordi
Falce viene, si trascina nel sale
E il sale ancora scava sete nella sete
Tra i fischi del corno
(IOSONOUNCANE, Tanca)
A distanza di più di un decennio, intervistato da Rumore, l’autore parla di un lavoro non completamente a fuoco – troppo sbilanciato in favore dei testi – ma di cui ancora si dice orgoglioso, per la quantità e la qualità delle idee messe sul piatto.
Ci vogliono però cinque anni prima che quella fulminante release abbia un seguito, tempo che Incani impiega per elaborare un progetto totalmente altro in termini di sonorità e approccio. Tempo ben speso, se è vero come è vero che DIE (Trovarobato, 2015) rimane uno degli apici della musica italiana del nuovo millennio: forse non straripante come La Macarena su Roma, ma certo più costante nel trovare un ideale punto d’incontro tra l’anima cantautorale e quella sperimentale del musicista di Buggerru. Anima Latina e Animal Collective, si dice in giro, e non sarebbe nemmeno una definizione troppo distante dalla realtà non fosse anche castrante per un’opera dall’atmosfera così peculiare.
Concept che racconta di un uomo in mezzo al mare che teme di morire e di una donna che lo attende a riva, DIE rallenta il ritmo per aggiungere alla tavolozza tinte meno accese e mezzemisure – si perdono completamente le raffiche di versi dell’esordio e pure quel timbro costantemente imbizzarrito.
Il meglio è in apertura, e non lascia scampo: si rimane scossi dal battito elettronico tribale che accompagna gli otto minuti di Tanca, canto corale allucinato che arrampica le ottave di un testo memorabile (“E nella fame il seme / Il solco aperto dalle mani / È questo il figlio e andrà per mare / è questo l’uomo che cadrà”); Stormi è la ragione per cui la maggior parte di voi probabilmente è qui, singolo battistiano di micidiale cantabilità che incastra cori giocosi e parole drammatiche (“Corre dalla fronte tra i capelli ed ogni giorno rivedi / Ancora vive negli occhi / Le correnti nel mattino che riprendono il mare”).
Le altre quattro tracce sono di pari valore, con apice nella sterminata Buio, un’estasi dall’attacco da sogno e dall’evoluzione imprevedibile: non vi sembri una bestemmia, ma più che a Panda Bear a me vien da pensare a un Brian Wilson progressivo e teletrasportato su una spiaggia del Mediterraneo nel nuovo millennio. Un lavoro dalla luminosità accecante, DIE, che lascia sabbia tra le dita, sale nei capelli e tempesta nel cuore e alla cui realizzazione contribuiscono in parecchi – tra gli altri: Alek Hidell, Serena Locci, Paolo Angeli con la sua chitarra sarda preparata e Simone Cavina dei Junkfood alle percussioni. Campiona, manipola, compone, arrangia e dirige tutto IOSONOUNCANE, con una consapevolezza di mezzi e obiettivi che lascia attoniti.
“È un disco certamente politico. Lo è per la sua durata, per il suo suono e per il suo linguaggio. Lo è perché complesso, perché stratificato e perché si pone nettamente di traverso rispetto al mondo che stiamo vivendo, tanto il nostro piccolo mondo musicale quanto il grande mondo dei capitali e delle frontiere. È altrettanto innegabilmente un disco drammatico, poiché calato nel divenire di un preciso istante, senza alcuna speranza” (IOSONOUNCANE, Rolling Stone)
Ci sono tre istantanee sonore che raccontano gli anni che traghettano IOSONOUNCANE dalle sponde di DIE a quelle di IRA – lo split con i Verdena del 2016, il tour con Paolo Angeli del 2018, il singolo Novembre dello scorso anno – e sono tutte e tre significative, per ragioni diverse.
La collaborazione con la band di Alberto Ferrari, che fa proprie Tanca e Carne mentre Incani rilegge Diluvio e Identikit, segnala una vicinanza che dalle incisioni in studio poteva essere intuita, anche se solo in spirito; in questi venticinque minuti, invece, il trio bergamasco e il compositore sardo mostrano di avere più di un tratto in comune anche dal punto di vista stilistico, per tacere di una propensione al rischio che a questo livello di notorietà – paragonabile, anche da un punto di vista commerciale – è merce davvero rara.
Delle date condivise con Paolo Angeli – musicista d’avanguardia d’area improvvisativa -, Incani porta il ricordo di un incontro realmente trasformativo, anche se dice di non essere sicuro che questo già si senta in IRA. La pubblicazione di Novembre, infine, aveva spiazzato molti per il suo tono da canzone d’autore italiana filtrata da una sensibilità Mercury Rev, ma si trattava di un colpo di teatro: il pezzo non è incluso nella scaletta di IRA ed è vecchio di undici anni. Pubblicato oggi – insieme a una cover di Luigi Tenco – suona in un certo senso come un addio a un mondo che per IOSONOUNCANE però non è mai stato particolarmente attraente: IRA, come e più degli illustri predecessori, guarda davvero in tutt’altra direzione.
Diciassette brani per un’ora e cinquanta minuti di durata, il doppio album è un trionfo dell’Incani compositore e songwriter, una partitura pensata per essere riprodotta interamente dal vivo dallo stesso ensemble con cui è stata incisa in studio: Mariagiulia Degli Amori (percussioni, chitarra classica, voce), Simona Norato (pianoforte, organo, mellotron, voce), Francesco Bolognini (elettronica, sintetizzatore, voce) e Amedeo Perri (sintetizzatori voce), oltre ai già citati Locci (sintetizzatore, voce) e Cavina (batteria, voce). Ed era previsto che fosse live, il primo contatto con questo mastodonte: inizialmente programmato per lo scorso anno ad anticipare l’uscita nei negozi, il tour nei teatri di IRA è stato posticipato alla primavera del 2022.
Ora che l’album è qui, è chiaro perché la nuova fatica larger-than-life di IOSONOUNCANE abbia richiesto un piano quinquennale – e pure perché fosse stato previsto di farla ascoltare al pubblico in un’esecuzione integrale.
Da un lato c’è la riflessione sul linguaggio, ancora una volta punto nodale dell’arte di Incani: dopo l’iperattività linguistica de La Macarena su Roma e la poesia immaginifica di DIE, il verbo di IRA si concretizza in un plurilinguismo che impiega inglese, francese, tedesco, arabo, spagnolo e italiano per convogliare parallelamente un’assoluta incomunicabilità e il disperato desiderio di capire e farsi capire – “una lingua momentanea, della necessità, fatta di errori e di un lessico occasionale, sradicato e confuso”, la spiega lui. Si comprende bene, insomma, perché l’autore la definisca una scelta politica, anche in mancanza di testi immediatamente comprensibili: basterebbe, per coglierne l’essenza profonda, spingersi appena più in là della mappa concettuale offerta dai titoli (“ceneri”, “folla”, “pietra”, “soldati”, “pelle”, “prigione”, “notte”, “grido”) e ascoltare il modo in cui le parti vengono distribuite tra mille voci intrecciate e sovrapposte.
Dall’altro, l’impasto sonoro si fa ancora più iridescente, nonostante il senso di malinconia e foschia che aleggia sulla maggior parte delle composizioni. A voler fornire una generica anticipazione di quello che l’ascoltatore ignaro potrebbe trovarsi a scoprire, verrebbero da citare già in prima battuta almeno Thom Yorke e i Radiohead (con particolare riferimento all’ultimo A Moon Shaped Pool e ai momenti più jazzy di Amnesiac); il canto assoluto e pre-verbale di Robert Wyatt in Rock Bottom; la world music del Peter Gabriel di Passion, trascurato capolavoro. Il resto – moltissimo, a partire dagli ascolti di Coltrane e musica nordafricana ampiamente citati nelle interviste – provo a esplorarlo qui sotto.
Hiver, in apertura, traccia un solco rispetto alla produzione precedente: un lento quieto, d’atmosfera, retto da un arpeggio di chitarra classica, da un battere distante e dal pianoforte; ed è sublime l’attimo in cui le bacchette battono per la prima volta sui piatti e il brano spezza la superficie del mare sotto cui s’era mosso fino a quell’istante. Ashes, appena successiva, mostra l’altro lato di IRA: una voce schiacciata come una sardina in una scatoletta di latta anticipa uno stacco violento; gli archi alzano il volume in un’onda anomala, mentre il ritmo assume le sembianze di una techno disidratata su cui s’innestano melodie desertiche per voci e synth.
La nuova modalità espressiva di IOSONOUNCANE è anche questo, dinamiche radicali come ne ho ascoltate di rado (Swans, This Heat) che impiegano un battito di ciglia per passare dal frastuono al sussurro – il finale wyatt-iano è un delicato soul per l’era digitale: a un certo punto sembra proprio che qualcuno dica “Alifib”, ma è giusto una Fatamorgana.
Jabal è un crescendo ansiogeno, con le voci trattate – quante e quali, non è dato saperlo – che si inseriscono nel mix allo stesso livello di tutti gli altri suoni, mettendoci di fronte a uno dei quesiti centrali del concept: se le parole cantate siano realmente prive di senso oppure se stiano solo dialogando con strumenti analogici ed elettronici in una lingua tutta loro, risultando semplicemente inaccettabili al nostro orecchio conservatore. Si ferma, Jabal, intorno al quarto minuto, come avesse perso i sensi; rinviene, riprende a correre senza darsi tregua e muore un pezzo alla volta, fino a non lasciare di sé altro che un’ombra.
In questo, IRA si comporta come un frattale: nei suoi numerosissimi cambi di ritmo e tono – anche all’interno dello stesso pezzo, come si è visto -, riesce a dare l’idea del disegno complessivo anche sulla distanza del singolo brano. Quel che accade in Prison è paradigmatico: un attacco minaccioso, miraggio di una carovana tra le dune che si fa carne, ossa e sangue col passare dei minuti – eccola qui, quella “moltitudine che attraversa terre e mari” citata nel comunicato stampa. D’improvviso il coro s’interrompe: la voce di Incani suona ora come quella di un aguzzino, lama affilata che detta il tempo a una batteria potente cui s’aggiungono strati di interferenze finché non s’implode nel vuoto della notte, lasciati soli con l’eco dei propri pensieri.
Ogni traccia, uno scrigno di preziosi: il solo di chitarra seventies di rara limpidezza che spezza Ojos, liquido come certe meraviglie Tinariwen; la grandeur orchestrale del finale di Piel, per il resto un tamburellare pop che fa sfoggio di un falsetto etereo, ben nascosto nell’impianto strumentale. Oppure ancora la melodia struggente di Nuit, dalla malinconia inconsolabile prima che la coralità del finale riporti tutto ai lidi di DIE – altra suggestione: non ci vuol molto per immaginarla sostituire quella canzone dolce e straziante che Corinne Marchand intonava nel mezzo di Cleo Dalle 5 Alle 7 di Agnes Varda.
Variazioni come regola, dicevo, anche al principio di una seconda parte che di primo acchito diresti più accessibile. Prière si trascina per più di nove minuti, tra un suono che potrebbe essere tanto un canto di gola sintetizzato quanto una nave in lontananza, una pulsazione profonda che squassa le casse, dissonanze da colonna sonora noir e un valzer alieno e rumorista: ogni cosa, qui, sembra cospirare all’ingresso della chitarra riverberata che traccia il tema arabeggiante di chiusura. IRA è zeppo di simili idee, che entrano ed escono dall’orizzonte nel giro di pochissimo – penso alla linea di synth che salta fuori sul finire di Niran, un pezzo che immagina i Portishead nel deserto; penso alla club destrutturata di Fleuve, frammenti d’osso sparsi che sta all’ascoltatore rimettere insieme in uno scheletro.
Questi spasmi sembrerebbero inconciliabili con un disegno complessivo leggibile, ma il talento di IOSONOUNCANE sta proprio nella capacità di sintetizzare una vena avanguardistica in una sorprendente fruibilità emotiva.
Soldiers vanta un afflato cinematografico da anni Sessanta traslati nel nostro tempo di suoni compressi e digitalizzati; apre come un sogno amniotico, continua con voce e piano, lascia sbocciare cori e archi: qualunque sia il testo che Incani sta intonando, la connessione e la commozione sono immediate. Ed è ancora cinema nei quattro minuti di Petrole, una tristezza implosa da bianco-e-nero – forse la melodia più toccante dell’intero IRA, nonostante abbia l’aspetto di un bozzetto appena accennato.
Proprio al tramonto, l’ultima impennata: Hajar è prima canto nudo su una ritmica rabbiosa e ostinata, poi danza circolare in accelerazione continua, trafitta da folate di sintetizzatori. Il potere evocativo di questi undici giri d’orologio è una volta di più travolgente: chiusi gli occhi, il brano ci traduce dalle parti della spiaggia affollata che apriva La Macarena; siamo noi, stavolta, sul barcone che rolla, traballa, imbarca acqua, rovescia corpi urlanti e infine ammutoliti. Resta un’orchestra simulata, poi s’azzittisce pure lei.
Alla fine c’è Cri, a dimostrazione che, per quanto ampio e mutaforma, IRA è pure un album di canzoni dalla bellezza cristallina. IOSONOUNCANE sceglie di congedarci con una ninna-nanna a base di elettronica povera risucchiata in un buco nero. Appropriato, direi: un disco pieno di voci dissonanti e significati nascosti non può chiudersi con una risposta e un punto fermo, ma solo con un’altra domanda in dissolvenza.
Si conclude così, IRA, un viaggio affascinante e misterioso – Mito e Storia in sovrapposizione, dicevamo all’inizio – che per due ore suona l’irriducibile complessità dell’esistere. Un caos apparente e rifinito invece fin nel minimo dettaglio, “irata sensazione di peggioramento” che si concede ogni sorta di divagazione in nome di un’espressività furiosa anche nei momenti in cui i toni si raggomitolano nel dolore sordo di un’epoca disassata.
In maniera non dissimile dal Fabrizio De André di Crêuza De Mä e come già in DIE, IOSONOUNCANE trova ispirazione concettuale in ogni terra s’affacci sul Mediterraneo. Sempre alta e complessa, insieme filosofica e terrigna, la sua è Arte capace di rivoltare le coscienze, pensata per incidere sul tempo in cui nasce: come in Lua Vermella, plana su popoli e individui e ne scaglia pensieri ed emozioni su paesaggi così enormi che non li si può dire, grida di pietra che tolgono il fiato.
Per dire quale sia il valore assoluto di quest’opera avremo bisogno di molti altri ascolti e riflessioni, confronti e discussioni – ma questo è materiale che non cerca mai facili consensi, in aperta opposizione a un mercato che invece non chiede altro che appiattimento e compulsione al prossimo clic. È certo fin d’ora, però, che se i limiti del linguaggio fanno i limiti di un mondo, gli spazi percorsi dalle anime in cammino di IRA sono sterminati.
Autore: IOSONOUNCANE
Titolo: IRA
Etichetta: Trovarobato / Numero Uno
Durata: 110’
Anno: 2021