Il pieno di felicità | Cecilia Ghidotti

Il pieno di felicità | Cecilia Ghidotti

Noi eravamo cosmopoliti, europei, solidali, antirazzisti, pronti a pensare globally ma agire locally. Avevamo letto tanti libri e visto tanti film giusti. Noi, intimamente convinti di essere meglio di quelli che restano a vivere nel posto in cui sono nati, avremmo visto luoghi diversi, ci saremmo aperti con fiducia al mondo che sicuramente sarebbe stato migliore della nostra provincia di origine. Poi dovevo essermi distratta e i primi iniziavano a tornare.

Credo di voler partire tirando fuori dal mazzo per l’ennesima volta, come boa di salvataggio, quella che ho letto essere la persona preferita di qualsiasi tuo appuntamento su Tinder (prendetela per vera anche se non ne ho testimonianze dirette per tutta una serie di motivi dei quali è a conoscenza il mio mental coach – ad ogni modo, è tutto sotto controllo). La persona preferita è David Foster Wallace, al quale non so più che appellativo introduttivo attribuire perché nella mia testa ormai non è più neanche una persona, penso a lui e piango contorcendomi come quando penso all’ipotesi di collisione tra la Via Lattea e la Galassia di Andromeda. In particolare, penso all’idea di viaggio alla quale mi ha sempre fatto pensare il suo reportage “Una cosa divertente che non farò mai più”, che così a occhio credo sia la sua cosa più letta in assoluto. Del suo viaggio in crociera – forse di ogni viaggio in generale – ciò che mi dà da pensare è la circolarità, ovvero il fatto che sei stato programmato per tornare sempre al punto di partenza. Questa immaturità circolare che porta ad un ritorno inevitabile sembra non volerti farti fare alcun passo in avanti, il che suona come una condanna di eterna giovinezza e apparentemente lo è: il cerchio è la raffigurazione geometrica perfetta per dirti che nel mezzo non c’è stato nulla di rilevante e per ripeterti di come tu abbia solamente trovato un modo diverso per perdere tempo, tua attività prediletta probabilmente da quella volta che, tra tutte le alternative possibili, decidesti di prendere la strada più lunga per raggiungere la scuola in bicicletta (età: 8 anni). Sei membro onorario del club di quelli che, potendo scegliere, decidono di percorrere il giro più lungo per arrivare comunque sempre allo stesso posto. Convinti di non star in realtà sprecando tempo ed energie.

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Infatti sai che non è affatto così, non è vero che non c’è stato nulla di rilevante e non è vero che hai solamente perso tempo, anche se durante qualche viaggio di ritorno ammetto di averlo pensato. Soprattutto se si tratta di viaggi di ritorno comprensivi di pause in Autogrill. L’Autogrill è uno dei posti in cui mi è più facile disperarmi, soprattutto durante le file per il bagno (il finale dell’attesa è: ansia igienista, ovvero in bagno poi non entro mai ma i costanti 20 minuti di coda e l’improvviso allontanamento simulando un’inesistente e allo stesso tempo urgentissima chiamata telefonica servono per gestire il panico dell’ennesimo “sto tornando a casa”, o meglio, a temporeggiare prima di farci i conti per l’ennesima volta).

La circolarità che garantisce il ritorno è anche ciò che forse più mi fa apprezzare i resoconti di viaggio. Non ho particolare predilezioni per il lieto fine ma mi gratifica avere l’intuizione corretta di dove quello che sto leggendo mi stia portando e spesso la risposta è: al punto di partenza. Crociere extra lusso, circumnavigazioni cinquecentesche, osservazioni partecipanti di tribù in Papua Nuova Guinea mai precedentemente contattate e parentesi vagabonde nella natura selvaggia (per quanto riguarda questo ultimo caso, qui qualche volta il cerchio perfetto si spezza poco prima del finale, ma diciamo che le eccezioni alla regola migliori sono le eccezioni alla regola che inglobano un alto tasso di tragicità).




Sono convinta che un buon numero di persone abbia già detto che non ci si renda conto di star scrivendo un romanzo generazionale, mentre lo si scrive. Ad ogni modo, ogni generazione ha i propri memoir di viaggio (intenzionali o meno), uno di quelli che preferisco credo parli attualmente al buon 80% di tutti noi, ovvero “Il pieno di felicità” di Cecilia Ghidotti.

Si può introdurre Cecilia, la protagonista, dicendo che è una trentenne che ha continuato a studiare anche dopo la laurea, come molti altri della sua generazione. Dalla città dei suoi studi, Bologna, un volo low cost l’ha portata a Coventry, contea inglese delle West Midlands (Jonathan Coe può aiutare) senza un centro ben preciso se non l’ennesima replica di un imponente e riconoscibilissimo negozio Ikea – l’aria di casa dei colori e delle forme degli edifici delle catene commerciali è sempre commuovente e mentirei se dicessi che non sia una delle prime cose che mi salta all’occhio quando sono via. Poco prima della Brexit, Cecilia accoglie i tentativi di proseguimento del suo percorso accademico alternandoli a meccanici lavoretti nella biblioteca d’Ateneo, ascoltando i The National dal vivo, visionando appartamenti, frequentando una vasta schiera di persone (da ciò che dicono, verrebbe voglia di conoscerle tutte) e domandandosi se si trovi davvero nel posto in cui vorrebbe essere a fare le cose che vorrebbe davvero fare. In sostanza, a valutare se le proprie scelte l’abbiano portata ad essere nel posto che ha sempre immaginato adatto a sé e, in caso contrario, come perdonarsi gli incidenti di percorso che l’hanno portata a prendere qualche inevitabile deviazione.

(Momento Amarcord utile per contestualizzare la citazione del titolo)

Lo stanziamento di Cecilia a Coventry non è però definitivo, l’elasticità dei low cost le permette infatti di tornare periodicamente nella città in cui risiedono le sue più grandi passioni, Bologna, ma anche farsi accompagnare in tour occasionali, per esempio, ad Helsinki, Berlino e Barcellona. Senza tralasciare qualche tappa necessaria nel suo paese d’origine, Palazzolo sull’Oglio, in provincia di Brescia, nel quale rivivere la propria infanzia osservando inavvertitamente una bambina già abbastanza grande da poter essere chiusa fuori dalla porta di casa (però, niente nostalgia: ho imparato infatti, anche grazie a questo romanzo, che solo raggiunta l’età adulta è possibile una nuova ed efficace reinterpretazione di un giro a bordo di un jet supersonico a Gardaland – l’età adulta a volte andrebbe guardata anche sotto questa prospettiva perché subito la situazioni appaia più rosea).

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È estremamente difficile non terminare il romanzo senza prenotare contemporaneamente 5/6 Airbnb sparsi per l’Europa (personalmente credo di non aver mai avuto così tanta voglia di viaggiare durante una lettura), ma la scrittura schietta di Cecilia, per quando sia soggettiva e descriva in particolare le sue scelte, i suoi spostamenti ragionati o improvvisi, e il suo personale percorso di crescita e valutazione delle attuali circostanze, racconta anche di una generazione di neo trentenni irrequieti, circondati da punti di partenza ai quali periodicamente ritornare, e che cercano di fare pace con ciò che rimane dei loro sogni irrealizzati e incompatibili con la vita adulta ormai raggiunta, fatta di orari da rispettare, domicilio fisso e questioni che non puoi più rimandare. Questa condizione trovo sia emblematicamente racchiusa nell’immagine di copertina, ovvero la testa mozzata di un unicorno a rappresentare forse le utopie fiabesche (infantili, sì, ma molto  elaborate) che continuiamo a raccontarci durante i nostri vent’anni, smorzate per cause di forza maggiore una volta cresciuti senza però perdere la loro, ormai rassegnata, leggerezza pop della quale non dimenticarsi quando è necessario affrontare i nuovi problemi e interrogativi che man mano si danno il cambio, sembrerebbe – ad oggi – in maniera inarrestabile.

Io canto i versi che mi sono portata dentro negli ultimi anni, credendoci tantissimo, quasi andando alla ricerca di tutto ciò che nella mia esperienza quotidiana potesse specchiarsi nell’un-magnificent, e mentre sono lì che strillo, le mani tese verso il palco, di fronte al clamoroso trionfo del tizio che una volta ha chiamato un-magnificent la sua vita adulta, mi dico che forse adesso basta, che davvero è ora di smetterla di vestire il lutto dei miei desideri di ventenne non completamente realizzati.

 

How long are you planning to stay here?

 

Titolo | Il pieno di felicità

Autore | Cecilia Ghidotti

Editore | Minumum Fax

Anno | 2019

 

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