Il mio amico Eric

Il mio amico Eric

Best!

Disclaimer: scrivo nelle ore che precedono la partita Inghilterra – Italia; in questo momento non nutro alcun sentimento calcistico nei confronti dell’Inghilterra.

Lo sport è sempre stato fonte inesauribile di grandi film, dedicati a grandi personaggi. Come epos moderno, vengono mostrati uomini innalzati ad eroi, capaci di compiere grandi imprese con le proprie forze. L’America ha trovato nel pugilato e nel football (citiamo Cinderella Man e Ogni maledetta domenica, solo perché sono i primi due titoli che mi sono venuti in mente, potremmo citarne a dozzine!), storie di redenzione e di grandi uomini, viste sempre con l’occhio dell’eroe, dell’epica classica (e un po’ americana…). È difficile, invece, trovare film che portino lo sport nelle strade e nelle case delle persone normali, che lo svestano di ogni retorica legata al mito superomistico dell’atleta; che spostino l’attenzione dal grande attaccante, al resto della squadra (di solito comprimari di poco conto) oppure addirittura agli spalti, fra i tifosi.

Ci prova Ken Loach, allontanandosi solo apparentemente dai temi e dai toni che hanno caratterizzato la sua filmografia, con la commedia Il mio amico Eric. Ambientato nella periferia suburbana che gli è cara, Loach disegna una storia di redenzione umana dove lo sport è solo una metafora, un modello da applicare tutti i giorni nella vita quotidiana. Eric è un postino di mezza età la cui vita sta andando in pezzi. Due matrimoni falliti, due figli adolescenti e scapestrati, un nipote di pochi mesi e troppe cose non dette, a se stesso e alla sua prima moglie, unico vero amore. Come un meccanismo inceppato, Eric si trascina stanco in una vita che non sembra offrirgli nulla, senza scelte né futuro. La sua unica vera passione è il calcio, che non può più permettersi di andare a vedere allo stadio; il suo grande mito, Eric Cantona, lo scruta dal muro di camera sua con lo sguardo severo ed il colletto della maglia alzato. Sarà proprio la comparsa “magica”, mediata dalle canne rubate al figlio, del suo eroe personale, proprio Cantona, ad indicargli la giusta direzione per sistemare le cose.

“Dio prega Cantona”. Perché il regista abbia scelto un francese per rappresentare lo spirito guida di un inglese è chiaro. È difficile trovare nella storia dell’Inghilterra uno straniero idolatrato tanto quanto Cantona; è difficile trovare un giocatore che raggiunse il suo successo. Non fu solo estro calcistico, ma la capacità di creare un personaggio. Scapestrato, come George Best prima di lui, irriverente e irrispettoso delle regole (tanto da beccarsi 9 mesi di squalifica), capace di dire frasi così poco comprensibili da diventare filosofia e leggenda, come la celebre frase dei gabbiani, rivolta ai giornalisti avvoltoi. In campo, però, assolutamente inarrivabile. “Ti riempie così tanto da farti dimenticare la tua vita di merda”, dice Eric. Questo è il senso dello sport e del calcio in particolare: la giusta maniera di scappare da una vita che offre poco o che ha già offerto tutto. Non solo, però. Per Eric è anche uno stimolo a riscattarsi.

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L’amico immaginario, ma reale, spronerà il postino a cambiare la sua vita, riallacciando i rapporti con la prima moglie e salvando da una brutta situazione i figli adolescenti, che si trovano invischiati con un piccolo malavitoso locale, con una epica “Operazione Cantona”. Sempre seguendo i dettami a metà via fra irrisione e filosofia del suo maestro: senza rischiare non possiamo superare i rischi. Oltre a trovare la forze dentro di sé per affrontare le difficoltà della vita, Eric insegna ad Eric l’importanza della squadra, dei compagni o degli amici, nell’affrontare le vicende del grande match della vita, dove il momento più bello non è realizzare un gran gol, ma permettere al tuo compagno di farlo, con un passaggio perfetto ma meno “rumoroso” di un gol.

A metà via fra sogno e realtà, Loach delinea una commedia delicata solo in apparenza. Ad ogni angolo emergono i temi a lui cari: la classe media inglese, la sopraffazione dei più deboli, la difficoltà nel trovare lavoro, nel mantenerlo, e nel coniugare i rapporti umani. Come sempre, la sua regia rimane silenziosa e poco visibile, ma priva di sbavature, come un allenatore capace che lascia liberi i giocatori indirizzandone, però, ad ogni istante le azioni. I personaggi descritti dal regista sono perdenti per natura, sui quali destino e società tendono ad accanirsi con vigore, che trovano una vita di riscatto nei confronti degli altri e, soprattutto, di se stessi. Non basta certo farsi la barba e pettinarsi, ma la strada per risalire dal baratro è formata da piccoli passi, fra cui anche la cura del corpo, come insegna l’ex calciatore. Più di ogni altra cosa, però, conta riuscire a credere in se stessi e negli altri. Solo fidandosi delle proprie capacità e del sostegno di chi ci è vicino, si possono raggiungere grandi obiettivi.

I due Eric si contrappongono perfettamente, a partire dal nome, come due vasi comunicanti. Eric (il postino) acquista da Cantona quella sicurezza che non gli era propria e che gli serve per chiudere ed aprire porte nella sua vita, dove fino ad allora tutto era stato lasciato incompiuto. Cantona, d’altro canto, acquisisce un po’ di umanità nel continuo dialogo con Eric, pur sempre rimanendo su un piano differente e “soprannaturale”, quasi eroico (“Io non sono un uomo: sono Cantona!” afferma, prima di scoppiare a ridere). Il pregio del film è proprio dichiarare apertamente la componente superomistica, volutamente magica, dell’eroe sportivo, per poi scoprirlo in veste quasi comica di uomo, solo con una marcia in più.

Ecco lo sport, dunque, che supera le polemiche (a cui il film fa diversi accenni), per farsi modello di condotta. Il film ci insegna a prendere quanto di buono c’è nelle figure sportive, per utilizzarlo nella vita di tutti i giorni. Il calcio, oltre ad essere svago e pausa da una realtà negativa, diventa metafora di vita: la squadra prima di tutto, la voglia di segnare e di cercare costantemente l’azione, ma senza egoismi, sapendo di essere parte di qualcosa di più grande, non un’isola solitaria. Lo sguardo di Cantona, i canti al dio del calcio, diventano sprone a cambiare la situazione, a rivoluzionare la propria esistenza. Certo, forse non tutti avranno un campione del Manchester come spirito guida, ma a volte basta guardare una bella partita, un guizzo d’artista nell’area di rigore, per sentire che la soluzione è lì a portata di mano, basta saperla afferrare.

Alessandro Pigoni

 

Titolo: Looking for Eric
Regia: Ken Loach
Anno: 2009
Durata: 116 minuti
Interpreti: Eric Cantona, Steve Evets

P.s. al disclaimer: ABBIAMO VINTOOOOO!

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