Oasis, Manchester 2025: il Britpop non è mai morto (e noi nemmeno)
Ci sono cose che aspetti così tanto da smettere di crederci. Come un messaggio dal tipo troppo bello per essere vero con cui hai fatto match. O come una reunion degli Oasis. “Ci saranno altre occasioni”, aveva tagliato corto mia mamma, quando il concerto a cui tenevo così tanto era saltato. Era vero, sarebbe bastato aspettare circa 16 anni. Heaton Park, luglio 2025. Ci sono Noel e Liam sullo stesso palco. E ci sono anch’io.
Per essere qui, quasi un anno fa ho preso parte a una specie di roulette russa digitale: server impazziti, gruppi WhatsApp in preda al delirio, gente collegata con due laptop, un tablet e cinque cellulari nella tuta gold come in un heist movie. Tutti a tentare il colpaccio: accaparrarsi un biglietto. E, incredibilmente, una volta tanto mi è andata bene.
Per esserci ho speso una cifra talmente imbarazzante che ancora oggi faccio finta di non ricordarla. Spoiler: la ricordo benissimo. Anche perché ogni volta che salta fuori l’argomento, qualcuno si sente in dovere di chiedermela. Ma ormai, dopo anni di speranza ostinata, di meme, di fake news e di illusioni, i pentimenti sono fuori tempo massimo.
Welcome to Manchester

Manchester è una città da mezzo milione di abitanti, ma ha l’anima provinciale. I miei coetanei conservano ancora negli occhi gli adolescenti selvaggi che sono stati: guance rosse, felpe sformate, la sicurezza di chi a quattordici anni era già esperto di sbronze e, probabilmente, abilitato alla guida del muletto.
Sono accoglienti, ma il loro accento hackney è così forte che al terzo “You alright, love?” inizi a rispondere solo con sorrisi vaghi, sperando che nessuno si accorga che non hai capito una parola. Intorno, gli autobus a due piani color giallo pappa reale sfrecciano come bestie in fuga da un sogno psichedelico, minacciando di stirarti ogni cinque minuti.
Nei giorni della reunion degli Oasis, però, Manchester non è più solo Manchester: è un parco a tema Britpop. Me ne sono accorta già al gate dello sfigatissimo Terminal 2 di Malpensa, dove l’unica persona che non si stava imbarcando per l’evento dell’anno era una ragazza diretta alla laurea di sua cugina. C’era anche un tizio con la maglietta dei Blur, che si guardava in giro beffardo, convinto di essere molto simpatico.
In città, tutto ruota intorno a quei due. Ovunque ti giri c’è qualcuno con un cappello a secchiello, una tuta Adidas, un parka, occhiali tondi alla Lennon e l’aria fieramente anacronistica di chi è fermo al 1996 e non ha alcuna intenzione di andarsene. Anche se ora, al posto dei brufoli, abbiamo qualche capello bianco e dolori cervicali frequenti, e ci sembra perfettamente normale pagare otto sterline una birra tiepida. È un’onda pacifica, un pellegrinaggio collettivo a metà tra il rito musicale e la rimpatriata del Liceo.

Il rischio commercialata è altissimo, ma non importa: siamo tutti troppo occupati a essere felici, ubriachi e sguaiati. Le ragazze sono poche: gli Oasis sono storicamente una faccenda da maschi. Come il calcio, le risse fuori dal pub e le chiarazze alle undici di mattina. Per me non è mai stato un problema, non lo sarà certo oggi. I fratelli Gallagher mi hanno sempre attratto in un modo che ha poco a che vedere con la trama di Georgie, e molto con il fascino ruvido dei passamontagna di lana, delle giacche troppo over, dei Firm prima di Margaret Thatcher. Testosterone, guance scavate, e rabbia: cose che invece di spaventarmi mi fanno venire voglia di cantare più forte.
Per le strade, ai tavoli di legno dei pub o in coda per un caffè c’è chi sfoggia con orgoglio le magliette logore del Be Here Now Tour, chi ha vestito i figli da piccoli Noel, chi parla di Definitely Maybe come i sacerdoti parlerebbero di un Vangelo. Nessuno si conosce davvero, ma c’è una complicità istantanea. Basta un’occhiata, o un accenno di Live Forever canticchiato per strada. Mentre mi aggiro per il National Football Museum, un dipendente mi chiede come mai siamo arrivati in così tanti dall’Italia (lo capisco al secondo o terzo tentativo), e io non lo so.
Dov’era tutta questa gente quando gli Oasis si spaccavano chitarre costosissime in testa e si scioglievano per sempre? Forse nascosta, come me, a cercare indizi di disgelo nelle interviste passivo-aggressive, nei live solisti che “sì, ok, ma non è la stessa cosa”.
Manchester li ha accolti — ci ha accolti — come se anche lei stesse aspettando, con le mani in tasca e lo sguardo basso, il momento giusto per perdonare.
C’è una vibrazione nell’aria che va oltre l’entusiasmo. È quella sensazione rarissima di stare per assistere a qualcosa che succede una volta sola. E che, se ti va bene, ricorderai per tutta la vita.
Richard Ashcroft: il fantasma figo dei late ‘90s
Il cielo è rimasto coperto tutto il giorno, ma adesso una luce dorata, morbida e inattesa, ci accarezza il viso. Accanto a noi ci sono due ragazzi troppo giovani per aver vissuto gli Oasis nel loro prime time: lui sfoggia il mullet d’ordinanza e degli occhiali a specchio Nike, lei è bionda, tarchiata, con la faccia simpatica delle inglesi di periferia. Le chiediamo di scattarci una foto, e senza bisogno di ulteriori istruzioni inquadra perfettamente anche il palco: si vede che è Gen Z. Non avranno visto i Brit Awards su Mtv, ma si sanno comportare. E comunque, a questo punto della giornata, abbiamo bevuto tutti troppe birre per metterci a giudicare.
Poi arriva lui: Richard Ashcroft. Un’apparizione. Un miraggio. Un vecchio amico che non vedi da anni e che, all’improvviso, ti ritrovi davanti in forma smagliante — magro, figo, con gli stessi occhiali, gli stessi capelli e quella voce che ti si è piantata dentro quando avevi tredici anni e ancora non capivi niente, ma sentivi tutto. Nessuna scenografia, nessuna posa. Sembra stare bene, sembra felice. E noi con lui.
È “la serata dei Gallagher”, ma Richard incarna l’altro lato del Britpop: quello introverso, dolente, fragile. Non ha un fratello con cui litigare in pubblico, né qualcuno che gli faccia da specchio e contrappeso. È solo. Eppure, eccolo lì: lucido, carico, sul pezzo. Mentre canta Lucky Man, sembra crederci davvero. Siamo tutti, almeno per una sera, fortunati da morire.
Partono gli archi di Bittersweet Symphony e il tempo si accartoccia. Mi vengono gli occhi lucidi e la pelle d’oca. Intorno a me, migliaia di persone con la stessa espressione sulla faccia: quella di chi ha il magone ma fa finta di niente e continua a cantare a squarciagola. Ashcroft è il warm-up più potente che potessimo desiderare. Un’anticamera emotiva, un atto di riconciliazione collettiva con tutto ciò che è stato e che può essere ancora. E se è vero che gli Oasis sono l’evento, lui è l’abbraccio prima dell’esplosione.
Because we need each other
Quando li vedi salire sul palco insieme, con i pugni alzati — Liam con il parka e la solita postura da gazza ladra incazzata, Noel con lo sguardo da “Io qui ci sto per voi, ma anche no” — hai un tuffo al cuore. Non è solo nostalgia, è un intero pezzo della tua vita che torna al suo posto: te lo ricordi com’era? Certo che sì, te lo ricordi benissimo, eri felice e non lo sapevi. Intanto, Liam dice che siamo bellissimi. Che stronzo!
La folla esplode appena partono le prime note di Hello, il cellulare mi cade di mano e all’improvviso il prato di Heaton Park non è più un concerto ma estasi collettiva. Gente che urla, piange, si abbraccia, registra video traballanti col telefono in una mano e la birra nell’altra. Non so dire se siano davvero a posto, i fratelli Gallagher, ma sembra di sì. Prima di iniziare si battono il pugno, a un certo punto si danno persino un bacino. Magari è una recita, ma chi se ne importa?
In ogni caso, li trovo molto bene. La tensione che li attraversava è ancora lì, quella scarica che rende ogni canzone più viva, più sporca, più vera. Liam regge benissimo la voce: ruvida, abrasiva, giusta. Quando canta Morning Glory sembra che nulla sia mai cambiato. Noel invece fa quello che ha sempre fatto meglio: tiene tutto in piedi, regala una Talk Tonight che ci seppellisce sotto una valanga di cori e ricordi.

C’è chi gira un sacco di video, chi era ubriachissimo ma adesso si è ripreso, chi canta tutte le parole senza sbagliare una virgola. È come se qualcuno mi avesse aperto una finestra nel petto per far entrare una boccata d’aria fresca. L’atmosfera è elettrica ma anche tenera: come se tutti ci stessimo dicendo che è ok, che non c’è niente di male ad amare ancora le stesse canzoni che ci facevano sentire invincibili a sedici anni.
Quando suonano Don’t Look Back in Anger, Heaton Park esplode. Perché cantare Don’t Look Back in Anger nel 2025, davanti a due fratelli che non si parlavano da più di un decennio, è un gesto così potente e fragile insieme che ti sposta qualcosa dentro. In quei minuti, nessuno pensa a Instagram, ai reel, ai meme. Solo a quanto sia stato difficile arrivare fin qui, e a quanto ne sia valsa la pena.
Sarà davvero l’ultima volta che vedremo gli Oasis? Non si sa. Da una parte, spero di non tornare mai più qui, perché non potrebbe essere mai più così bello.
“Ma metti che vengano in Italia… tu preferiresti andare vederli a San Siro o al Parco di Monza?”